Taghumour

Svoltare la clausura grazie agli anni novanta

anni novanta

Per assicurarsi momenti di distensione in questi tempi difficili, c’è chi sceglie la mindfullness, il total body, il binge watching. Io rivendico e promuovo la pratica del “nineting” – o “novanting”, se preferite. No, non è un’allusione alla posizione dolorosa in cui ci ha messi il virus, ma un omaggio alla decade delle boyband mechate, delle coreografie improbabili, delle hit zeppe di “yeah” e “baby” da strillare a occhi chiusi. Gli anni novanta.

Il nineting consiste nell’ascolto estemporaneo del miglior pop del decennio 1993-2003, supportato, se possibile, dal canto a squarciagola di ritornelli insulsi e da mossette plastiche. L’obiettivo è rendere la quarantena non dico spassosa, ma quantomeno tollerabile.
La potenza di questa pratica mi si è palesata per caso, quando sono incappata nella versione domestica (e anziana) di “I Want It That Way”, postata dai Backstreet Boys in pieno lockdown. Era una mattina grigia di un prevedibile giorno ai domiciliari, eppure gli effetti benefici si sono rivelati immediati e piuttosto sostanziali. Vado dunque a elencarli:

  • Evasione: il nineting evoca ricordi scemi da un’era scema, almeno per quelli della mia generazione. Impossibile trattenere il sorriso mentre le Spice Girls ocheggiano allegramente nei loro abiti sintetici.
  • Leggerezza: il nineting si alimenta di contenuti basici e per questo rassicuranti. Il mondo fa meno paura, quando puoi gridare: EVERYBODY YEAH ROCK YOUR BODY YEAH.
  • Dinamismo: il nineter d’esperienza, sa che i brani sono quasi sempre abbinati a balletti idioti, di facilissima riproducibilità (anche se vi trovate in salotto e siete sprovvisti dei più elementari rudimenti di danza). Fai movimento, sudi e ti spogli del fardello della tua dignità. Gratis!
  • Benessere: il nineting libera endorfine – lo dice chiunque debba promuovere una pratica, chi sono io per fare diversamente? Attraverso il canto sguaiato, poi, permette di allentare anche le tensioni più profonde.

Aggiungo che si può fare nineting da soli, in videoconferenza con gli amici o dal vivo insieme ai propri famigliari. Senza bisogno di abbonamenti o di istruttori collegati da remoto.
Ieri, ad esempio, ho cantato “Baby One More Time” mentre mia figlia ballava vestita di strass, ed è stato alquanto liberatorio. Come effetto collaterale, devo riportare che la bambina mi ha poi chiesto di ripeterle il ritornello duecentosessantasette volte – perché sì, il nineting crea dipendenza.

Pertanto, una volta finita la lezione di yoga, vi invito ad arrotolare il tappetino e passare dall’OHM all’OHMANNAGGIA L’HO FATTO ANCORA UNA VOLTA, evocando lo spirito di Britney Cortellesi.
Provate e mi direte. Tanto, parliamoci chiaro, cos’altro avete da fare?

Caro Google ti scrivo, così mi distruggo un po’

Google

Ok Google, come faccio a diventare una persona migliore? Sul serio, Google, ascolta.
Sono spersa, vivo cercando costantemente qualcosa. E come me tanti altri, Google. Siamo millennial: nel tempo in cui i jeans a vita alta sono diventati cool, da sfigati e poi di nuovo cool, per noi il termine “ricerca” ha stravolto completamente il suo significato. L’attimo prima eravamo in biblioteca a trascrivere con la bic un capitolo sull’allevamento ovino in Molise, quello successivo eccoti: un seducente campo aperto a cui domandare potenzialmente ogni cosa. E senza fatica.

Quando, quattro anni fa, io e Matteo abbiamo iniziato a immaginare di avere un bambino, un pomeriggio mi sono seduta al computer e ho digitato la chiave: “pentirsi di avere figli”.
L’ho fatto davvero, Google.
Come se il significato di una rivoluzione esistenziale così radicale potesse nascondersi su panzaegravidanza.it.
Come se la risposta alle mie paure potesse celarsi nei commenti di Forumina84, scossa per aver rifilato l’ennesimo lavaggio nasale al suo erede.
Quel giorno ho scoperto che sì, c’è chi si rammarica di avere procreato, e che una sociologa israeliana ha persino scritto un libro in merito.
Insomma, io mi avvicinavo timorosa all’idea di un bimbo, tu mi illustravi diligentemente perché desistere e scappare lontanissimo.

Non so più stare sola coi miei dubbi, Google. Non c’è mai silenzio. Le preoccupazioni leggere che mi attraversano come nuvole, possono facilmente diventare temporali.
E il punto non è quasi mai quanto i tuoi responsi siano attendibili, ma quanto risuonino con me.
Se ho bisogno di darmi delle pacche sulle spalle, tu supporti la mia tesi del momento. Se qualcosa mi rende ansiosa, tu fornisci un ventaglio di ottime ragioni per continuare a esserlo.

Vivere le domande ora – farle decantare, maturare – non è più un’opzione. Le questioni vengono indirizzate lì per lì, così come arrivano, senza uno straccio di selezione: da “durata yogurt aperto” a “sintomi epatite”. Pronti, partenza, disagio.

Aiutami, Google. Io non sono semplicemente una millennial: sono una madre millennial – sì, ho concepito, alla faccia della sociologa israeliana e del suo libro.
La nostra è tra le specie digitali più inquiete e voraci. Non ci bastano i consigli di riviste, manuali, pediatri, nonne, amiche, psicologi, ostetriche, doule, guru dell’allattamento, counselor, portatrici, astrologi, santoni, esorcisti. No: noi nel dubbio googliamo per un secondo parere.
Questa storia del genitore consapevole ci è sfuggita di mano e la maternità somiglia sempre più a un protocollo di do’s and don’ts.
Io mi mantengo a distanza dal branco, evito le conversazioni online, simulo superiorità. Talvolta però mi assale una furia malsana e leggo, leggo, leggo: dalla rubrica del pedagogista al post della tronista.

Per dire, prima di iscrivere i miei gemelli alla scuola dell’infanzia ho analizzato l’offerta formativa per la fascia 3-6 nell’intero sistema solare, scandagliando il web con la perizia di un cercatore di tartufi. Nessuna opzione è stata trascurata. La sperimentale nel bosco dove i fanciulli intagliano ceppi e suonano l’oboe a trentasei mesi. La montessoriana tutta legno e tinte pastello, ottima per l’autonomia delle creature e pure per Pinterest. La trilingue con i laboratori pomeridiani propedeutici all’università. Una stava a Roma, una a Milano, l’altra a New York. E io che vivo in provincia, stavo una merda. Salvo poi scoprire che la statale a due minuti da casa ha un giardino bellissimo e maestre adorabili. E che i miei treenni erano pronti ad accogliere il cambiamento con serafica condiscendenza, a differenza di me.

Se però le angosce sono di quelle ingombranti e dolorose, mi guardo bene dal coinvolgerti. Quando ho saputo che il mio Pietrino aveva una malformazione congenita (qui la sua storia), ho evitato accuratamente di rovistare online. Qualsiasi pronostico mi avrebbe atterrita. Meglio ascoltare i medici e fare alla vecchia maniera: aspettare che le cose accadessero, senza provare a leggere il futuro in rete.

E forse è proprio questo il succo. Io rivoglio la quiete. Il mistero. L’attesa.
Non offenderti Google, ma ambisco a convivere con l’irrisolto.

Pertanto, da bravo, adesso fai una cosa per me. Cerca: “come smettere di cercare su Google”.

Cose che ho imparato sull’età adulta

età adulta

Le tue occhiaie hanno un nome, un cognome, una ragione sociale e un indirizzo a cui spedire i tuoi insulti.

Tra le follie da fare una volta nella vita, includeresti uscire in inverno senza canottiera.

Hai una professione rispettabile e un mutuo, ti destreggi fieramente tra le responsabilità, paghi le tasse. Ma quando torni a casa dei tuoi genitori, la tua spina dorsale assume la consistenza dello squacquerone e ti lasci servire con manifesta indolenza, fermandoti a un passo dal chiedere la paghetta prima di congedarti.

Hai davvero capito chi sei. Il che è bellissimo, se sai come usarti.

Le amicizie sono poche, stupende, rotonde e consapevoli. Non devi fare colpo su nessuno e vivaddio non ci sono aspettative. Solo amore.

Sei maturata e lasci cadere tutto più facilmente. Anche la pelle, purtroppo.

Il climax delle tue paranoie idiote sulla bellezza fisica è coinciso con il climax della tua bellezza fisica. Ora lo sai.

Le hit latine passano da moderatamente tollerabili a lesive seguendo la tua curva di crescita.

Gli orgasmi sono una splendida certezza e uno dei motivi per cui ti faresti bella con la te diciottenne.

Quando senti dire “sodo” non pensi a un gluteo, ma all’uovo preferito da tuo figlio.

Il fatto che sia esistito un tempo in cui i dialoghi di Dawson’s Creek ti sono sembrati plausibili – o peggio godibili, è per te motivo di grande sconcerto*.

*Piccola parentesi finale: provate a riguardare adesso un episodio di Dawson’s Creek. L’ho fatto un paio di mesi fa per onorare il ventennale della serie ed è stato disarmante. Parlano tutti un sacco e con grande trasporto, perlopiù di questioni irrilevanti. E mentre cerchi a fatica di decifrare il perché di tanta verbosissima foga, la sceneggiatura ti regala vette di assurdità.
Tipo: in una delle prime puntate, Dawson fa prove di bacio in salotto, LIMONANDO UNA MASCHERA DI GOMMA con le fattezze di Joey Potter.  Potrebbe bastare. Ma no, davanti a lui c’è suo padre che lo istruisce dalla poltrona come un maestro Jedi, tronfio e soddisfatto. Potrebbe bastare. Ma no, nascosta dietro una piglia c’è Joey che li spia. Inorridita? Terrorizzata? A disagio? Macché: intenerita, come se avesse colto un cucciolo di labrador a frugare nel cesto della biancheria.
Roba che Lost in confronto è una docu-fiction.

Congresso Mondiale delle Famiglie: un programma possibile

Congresso Mondiale delle Famiglie

Si è aperto oggi a Verona il Congresso Mondiale delle Famiglie. Questo il programma della prima giornata, così come me lo sono immaginato. 

09:00
La difesa della vita
Dal concepimento alla sua fine naturale su un barcone.

10:30
Sesso, femminilità, infanzia
Ne parliamo con un consacrato, uomo, vecchio.

11:30
Sfruttamento della donna
C’è più gusto a casa o in ufficio?

12:00
Tavola rotonda
Con cavalieri, lance e tutto l’armamentario medievale.

13:00
Workshop con live cooking
5 ricette con la curcuma per sconfiggere i malanni stagionali e l’omosessualità.

14:30
I migliori ani
La dottoressa Silvana, massima esperta in materia, ci spiegherà come usare rettamente il nostro retto.

15:00
I diritti dei bambini
Tutelare i più piccoli, senza rinunciare a sfottere Greta Thunberg.

16:30
L’angolo del lettore
Reading dalla Trilogia del Gender e firma-copie con l’inventore della saga.

17:30
Ascesi e homeschooling 
Quando la via della conoscenza passa proprio accanto al tuo antibagno.

18:00
Santa Messa per la famiglia naturale
Con rito di scambio della pace tra le madri dei figli di Matteo Salvini.

Marie Kondo secondo me: divagazioni di una disordinata

marie kondo

Amo l’ordine.
Lo amo come una ragazzina invaghita del più popolare del liceo: sedotta dal suo fascino, ma conscia che non sarà mai davvero alla mia portata. Per me, l’ordine è bello e impossibile.

Chissà da dove arriva la forza deviante che mi spingerebbe a lanciare verso l’ignoto i vestiti appena tolti?
Chissà per quale disagio ancestrale la valigia del weekend di Capodanno è ancora da disfare, colma di capi mai messi che vado a recuperare all’occorrenza?
Forse creare caos è un modo per sfiatare, per concedermi una ribellione dal mio perfezionismo titanico.
Jimi Hendrix bruciava le chitarre, io sparpaglio i calzini. Vai a sapere.

Negli anni ho imparato a blandire l’ordine per farmelo almeno amico, a rieducarmi. E siccome in me convivono una secchiona e una pigra, abito in una casa su due livelli in cui il piano terra è armonico e curato, quello superiore ospita accozzaglie di oggetti. Un’allegra casa bipolare.

Ultimamente ho pensato a tutto ciò per via dello show di Marie Kondo su Netflix. Ne ho visto una puntata, mi ha lasciata perplessa e sono andata a cercare recensioni a supporto del mio disappunto. Questa giapponese in miniatura ha accumulato una fortuna grazie al proposito nobile, ma piuttosto audace, di restituire felicità alla gente attraverso sacchi neri, scatole e tanta voglia di catalogare. Fa cose esotiche come ringraziare le stanze e salutare gli oggetti, e il pubblico occidentale apprezza.
Molte amiche mi hanno parlato con entusiasmo de “Il magico potere del riordino”. Io non l’ho mai letto perché, da madre, mi basta il senso d’inadeguatezza garantito da un’altra Maria: la Montessori – sempre sia lodata, eh, sia chiaro.

Da quanto si evince dal programma, uno dei concetti cardine del KonMari è: tieni solo le cose che “sprizzano gioia”, butta via tutto il resto.
Ok. Certo.
Facciamo una prova.

Occhiali a forma di cuore paillettati, ricordo di una nottata epica con le amiche.
Gioia.
Abito traslucido in materiale infiammabile, acquistato a Porta Palazzo per partecipare a un finto matrimonio in qualità di finta zia.
Gioia, gioia!
Il cane Poverino aka Il peluche più triste del mondo, regalatomi da mia madre durante la maturità, quando mi aggiravo disperata per casa mangiando Plasmon e ripetendo che l’esame sarebbe stato un fiasco per via dei BUCHI, abissali BUCHI nel programma che ero certa di avere.
Gioia incontenibile.

Insomma, la gioia non può essere un discrimine, almeno per me. Stilla quando meno te l’aspetti, solitamente dalle entità insulse. La felicità non risiede, che so, nella canotta della salute, nella pinzatrice, nello scolapasta: articoli smaccatamente utili e a basso impatto emotivo. Sta nei ninnoli, nei cimeli. Ovvero le cose che tendo ad accumulare in modo irragionevole.
Al quesito “Ti fa sorridere parecchio?”, credo sia preferibile un banale “Hai usato questo oggetto negli ultimi sei mesi, di grazia?”.
Probabilmente non colgo l’afflato spirituale del procedimento.

Il mio metodo è non avere metodo.
Ogni due anni proclamo giornate campali in cui rovisto, archivio e butto via convulsamente, facendo una fatica nera e maledicendomi per non essere stata in grado di lavorare al mantenimento.

Quest’estate ho sventrato il mio guardaroba e ne sono usciti altri quattordici, un campionario di orrori dei primi anni Duemila con cui ho ripercorso la mia parabola liceale. Dall’occupazione al veglione in svariati comodi look.
Sono riemersi tre, e dico tre di quei pantaloni larghi col cavallo basso e l’elastico sulla caviglia che andavano fortissimo intorno al 2004. Ho fatto un trasloco cinque anni fa, perché non me ne sono liberata? Pensavo di giocarmeli durante un party a tema Le mille e una notte?
Nelle vacanze di Natale è toccato alla cucina: ho trovato crodini scaduti dal 2015 e un set di coltelli da formaggio intonsi, scampati alla mia parentesi dairy free.

Sono grandi manovre strazianti e impegnative, che mi provano nel profondo.
Eppure c’è una punta di sordo piacere, in quel fastidio. Alla sera, sudata e tentata di buttarmi io stessa nel pattume, guardo gli scaffali snelli e godo fortissimo.
Bello, l’ordine. Maledizione.

Che il segreto della felicità di cui parla Marie Kondo sia tutto lì?
Che il magico potere del riordino dimori in quella sensazione di compiuto appagamento misto a stress post traumatico?

Ci penserò su stringendo Poverino il cane, seduta sulla mia valigia di Capodanno ancora da disfare.

Le agenzie creative digitali spiegate con due mucche

Agenzie creative

COPYWRITER
Hai due mucche. Insegni loro a muggire con la giusta intenzione.

ART DIRECTOR
Hai due mucche. Le chiami Bold e Italic. Soffri quando si dispongono sul prato in modo casuale.

UX DESIGNER
Hai due mucche. Progetti per loro una stalla con vie d’uscita riconoscibili, colori che stimolano la produzione di latte e materiali soft touch. Ti arrabbi quando durante i test ruminano imperturbabili, senza apprezzare il prototipo.

PROJECT MANAGER
Hai due mucche. Organizzi turni di ruminamento, pascolo e mungitura. Razioni il fieno per ottimizzare il C su R. Se sfori il budget, ne mandi una al macello.

DEVELOPER
Hai due mucche. Sviluppi iMuc, un plugin per aumentare la produzione di latte. Poi comprendi dai loro occhi spenti che non sono abbastanza evolute per supportarlo.

STAGISTA ART
Hai due mucche. Cerchi di prenderle col lazo di Photoshop.

SOCIAL MEDIA MANAGER
Hai due mucche. Apri loro un profilo Instagram e le fai diventare influencer. Gli animalisti si indignano perché le sfrutti, le pancine si indignano perché non le mungi a richiesta, le femministe si indignano per la sovraesposizione delle mammelle. È un successo.

 

 

P. S. Lo so, il format delle due mucche era tornato virale due settimane fa. Lo so, due settimane online valgono come un anno nella vita vera. Ma oltre a un lavoro da copywriter, ho due gemelli imbizzarriti che non posso chiudere in una stalla. Vivo in costante ritardo.

Back to gender: un pericolo tra i banchi di scuola

Back to gender: un pericolo tra i banchi di scuola

Settembre: riaprono le scuole. E la caccia al gender.
In qualità di Madre, titolo equipollente a una laurea in Scienze della Formazione, ho scandagliato i programmi didattici dei nostri pupilli alla ricerca delle insidie ivi nascoste dalla lobby gay.
Quando sorprenderete vostro figlio a ripassare l’esegesi di “Gelato al cioccolato”, non dite che non vi avevo avvertito.

CHIMICA
“Una famiglia di elementi è costituita da quelli che compaiono in una stessa colonna della tavola periodica”. Capite bene che da qui a “Una famiglia di elementi è costituita da quelli che si vogliono bene” è un attimo.
Madre, padre, figli, sabati all’Esselunga: di questo è fatta una famiglia. Il resto è propaganda strisciante.

FISICA
Corpi rigidi, corpi estesi, membrane che si muovono su superfici, fluidi e solidi che riempiono interi spazi tridimensionali: ci sono più allusioni in un manuale di fisica che in un brano dei Village People.
I gruppi di pressione, così, vogliono normalizzare il sesso: che ne sarà di secoli di sensi di colpa usati come contraccettivi?

ARITMETICA
Due è uguale a due. Istillare nelle nuove generazioni l’idea che ammucchiate aberranti come quindici meno tredici o peggio millecentoventisette meno millecentoventicinque abbiano egualmente diritto di essere considerate due, è una pericolosa forzatura ideologica.
Non si può essere due come pare e piace. Siamo in piena deriva #metwo.

INGLESE
Insinuatasi nel quotidiano come un virus, la lingua del pensiero unico ha il preciso obiettivo di eliminare le differenze e appiattire le qualità.
Fateci caso: in inglese gli aggettivi non sono declinabili al maschile o al femminile, c’è un subdolo terzo genere neutro, ma soprattutto è impossibile comunicare a un amico che gli si vuol bene senza passare per ricchione: tocca dirgli “I love you”.

Internet è bello, ma non ci vivrei

La nostra esistenza iperconnessa è una fonte inesauribile di luminose opportunità. Non starò qui a elencarle: esistono gli spot Apple per questo.
Certe volte, però, Internet mi fa venire voglia di gridare fortissimo, armarmi del mio vecchio 3310 – peraltro ancora carico – e fuggire là dove i meme non possano raggiungermi.
Le ragioni sono molteplici, ne ho selezionate alcune.

BOOKING E L’ETERNO RITORNO
È chiaro. Alla base della strategia di comunicazione di Booking c’è la teoria dell’eterno ritorno di Nietzche. “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora innumerevoli volte”, sembrano profetizzare gli onnipresenti banner e le copiosissime newsletter.
Hai appena visitato New York? Allora forse può piacerti New York.
Sei stata in Provenza per la fioritura della lavanda? Torna a controllare il raccolto.
Vuoi un’idea per un weekend fuori porta? C’è il tuo pianerottolo.
Amici di Booking, ho un consiglio: provate con l’approccio “vertigine della possibilità”, in stile Kierkegaard. Proponetemi di scegliere tra luoghi incantevoli che non ho ancora visitato, stupitemi, confondetemi, corteggiatemi. Ho due figli piccoli e in ferie ritornerò eternamente nella casa di famiglia in Liguria. Almeno voi, fatemi sognare.

LA SCIENZA CHE DICE E NON DICE
Il web ha una relazione complicata con la scienza. Le nostre bacheche pullulano di opinioni su medicina e fisica quantistica dispensate da starlette decadute, idraulici, designer d’interni, cantanti, tassisti, mio cugino.
Gli articoli scientifici formato social appartengono perlopiù a due filoni spassosamente opposti: ci sono quelli del genere “Lo dice la scienza” e quelli del tipo “Ciò che la scienza non vi dice”.
La regola è questa: se il tema è di straordinaria inutilità, la news appartiene alla prima categoria e trasuda fiducia nel sapere empirico. “Chi è disordinato ha una mente geniale, lo dice la scienza”. “Se hai le lentiggini parli meglio l’inglese, lo dice la scienza”. “I primogeniti sono più forti a burraco, lo dice la scienza”.
Quando invece la disquisizione tocca nozioni specialistiche e profondamente complesse, allora temibili professoroni ci stanno nascondendo la verità su nanoparticelle, vaccini e terremoti. Fuck the sisma.

I POSER
Hanno guardaroba da 500.000 like, figli sovraesposti che poi correggono con Photoshop e il sogno di un filtro Instagram definitivo da utilizzare nel mondo reale – volete mettere affrontare un colloquio di lavoro con su un bel Valencia?
Per loro la forma è tutto, e con forma intendo il taglio quadrato delle fotografie social.
Alcuni soffrono di una paresi da duckface: poco male, non servono vocali aperte per commentare “Top!”
Un tempo si è lottato per l’immaginazione al potere. I poser le hanno preferito l’impaginazione.

GLI EPITETI SUPERSIMPA
Il dileggio online non conosce limiti: è multipiattaforma e cross-generazionale. Si insultano gli oppositori politici, le squadre avversarie, le donne brutte, quelle troppo belle, gli immigrati, le mamme che non fanno come dico io, i vegani, gli altri, tutti gli altri, sempre.
Tralasciando i connotati più inquietanti del fenomeno, vorrei concentrarmi su un particolare risvolto linguistico: l’abuso dei soprannomi col-gioco-di-parole-tutto-da-ridere.
Utonti, Pidioti, Grullini, Renzie, Di Mail: c’è una lista infinita di epiteti lisi che girano di commento in commento, consumandosi come quei calzini che finiscono per far prudere il tallone sulla suola. Sono scorciatoie: tentativi di screditare senza passare dai contenuti, con l’aggravante del conformismo. Per me sono tutti, invariabilmente pronunciati dal mio compagno delle medie con molta peluria sotto il naso e poco senso dell’umorismo. Io leggo “Italioti”, ma sento “gne-gne”.

Netmix: Masha, Orso e Walter White

In casa nostra l’intrattenimento televisivo spazia con disinvoltura dai cartoni russi ai cartelli messicani, complici la bulimia da streaming e due figli piccoli.
Nel tempo abbiamo preso e lasciato così tante storie che mixandole ho ottenuto delle trame a sé. Eccole.

BREAKING BEAR
Un vecchio orso è costretto a trascorrere gran parte della propria pensione con una bambina tarantolata, senza l’attenuante della parentela. Per sfuggire al peso di un destino senza logica, deciderà di mettersi a produrre e consumare anfetamine, al grido di “Che pia-cere cuci-nare, la ricetta è tutta qua”.

BIV’ BANG THEORY
Vita da topi, riti gregari e maschilismo: i nerd hanno molto in comune coi camorristi, è questa la tesi degli sceneggiatori. La serie è un susseguirsi di crimini efferati, primo fra tutti l’uso delle risate registrate. Memorabile la scena in cui Sheldon Cooper beve l’urina di don Pietro Savastano durante la cena thai del lunedì.

STRANGER TEAM
L’intreccio ruota intorno a una sparizione dai risvolti misteriosi: quella di Lorenzo dalla classifica MotoGP, dopo l’ingresso nel team Ducati. Il motociclista sarà inghiottito nel Sotto-Sotto, un mondo parallelo estraneo ai microfoni dei cronisti, dove la scelta tra gomme morbide o dure non sposta i dibattiti televisivi. Undici sarà la posizione massima da lui raggiunta in campionato. Gli italiani godranno così tanto da farsi uscire il sangue dal naso.

IL TRONO DI SPADA
I protagonisti di questa serie culto sono affamati di potere. E di piatti fighetti impiattati a modino. Tra schizzi di maionese e testine mozzate, lotteranno per sopraffare bestie misteriose, diventare Re dei Sette Regni e pubblicare il loro primo libro di ricette. Un plauso agli autori per avere inventato da zero la lingua parlata da Sir Bastianich.

PIG LITTLE LIES
Peppa Pig, Rebecca Coniglio e Suzy Pecora conoscono la violenza: sono state disegnate con gli occhi su un solo lato del muso. La storia della loro amicizia si incrocia con le vicende di una cittadina avvolta da inquietanti misteri. Perché ridono tutti? Come mai vivono su colline ripidissime? Cosa nasconde Mr. Patata nei pantaloni? Ma soprattutto, Zio Pig è una bestemmia?

Elezioni da Oscar: se i nostri politici fossero film

LA FORMA DELL’ACQUA
La pellicola racconta il legame inusuale tra il popolo italiano – cieco, sordo e muto – e una strana creatura da crociera, mezza uomo e mezza spot pubblicitario: Silvio Berlusconi. Apparentemente immortale e avido di carne fresca, l’essere misterioso ingaggerà con l’Italia un lungo tira e molla, tra avvisi di garanzia e serate eleganti dove a tirare sarà soprattutto il suo belino.

L’ORA PIÙ BUIA
Il film traccia il ritratto intimo di un politico di caratura internazionale, capace di cambiare le sorti di una generazione e dell’intera storia: Luigi Di Maio. Il genere è dunque fantastico.
Il racconto si snoda tra i banchi di scuola di un liceo napoletano, negli anni ’90, e restituisce il tormento interiore che affligge Luigi durante i sessanta minuti più difficili del lunedì: l’ora di italiano.

CHIAMAMI COL TUO NOME
La storia dell’amore omosessuale, omonimo e omologo tra il carismatico Matteo Renzi e il carismatico Matteo Renzi. L’arrivo di Paolo, conturbante e bellissimo, sembrerà spezzare l’incanto, ma solo per un attimo.
Perché le grandi passioni non si fermano di fronte a un rifiuto. Nemmeno quando è referendario.

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
Una donna orchestra una scenografica campagna di protesta contro chi ha violato ciò che possiede di più caro: l’amor di patria.
Lei è una biondissima Giorgia Meloni, lui il prototipo dell’attaccabrighe: un diafano egittologo.
Comincia una guerra senza esclusione di colpi di sole, aggravata da un dramma nel dramma: Giorgia, infatti, invecchia mentre la foto sui manifesti ringiovanisce al posto suo.

DUNKIRK
Dopo l’invasione del nostro Paese da parte dei neri, migliaia di italiani si sono ritirati sulle spiagge e ora sono circondati da un minaccioso esercito di nigeriani. La Lega tenta di evacuare i connazionali mobilitando un grande numero di imbarcazioni civili.
Il film è tratto da una fake news postata da Matteo Salvini su Twitter.