
Amo l’ordine.
Lo amo come una ragazzina invaghita del più popolare del liceo: sedotta dal suo fascino, ma conscia che non sarà mai davvero alla mia portata. Per me, l’ordine è bello e impossibile.
Chissà da dove arriva la forza deviante che mi spingerebbe a lanciare verso l’ignoto i vestiti appena tolti?
Chissà per quale disagio ancestrale la valigia del weekend di Capodanno è ancora da disfare, colma di capi mai messi che vado a recuperare all’occorrenza?
Forse creare caos è un modo per sfiatare, per concedermi una ribellione dal mio perfezionismo titanico.
Jimi Hendrix bruciava le chitarre, io sparpaglio i calzini. Vai a sapere.
Negli anni ho imparato a blandire l’ordine per farmelo almeno amico, a rieducarmi. E siccome in me convivono una secchiona e una pigra, abito in una casa su due livelli in cui il piano terra è armonico e curato, quello superiore ospita accozzaglie di oggetti. Un’allegra casa bipolare.
Ultimamente ho pensato a tutto ciò per via dello show di Marie Kondo su Netflix. Ne ho visto una puntata, mi ha lasciata perplessa e sono andata a cercare recensioni a supporto del mio disappunto. Questa giapponese in miniatura ha accumulato una fortuna grazie al proposito nobile, ma piuttosto audace, di restituire felicità alla gente attraverso sacchi neri, scatole e tanta voglia di catalogare. Fa cose esotiche come ringraziare le stanze e salutare gli oggetti, e il pubblico occidentale apprezza.
Molte amiche mi hanno parlato con entusiasmo de “Il magico potere del riordino”. Io non l’ho mai letto perché, da madre, mi basta il senso d’inadeguatezza garantito da un’altra Maria: la Montessori – sempre sia lodata, eh, sia chiaro.
Da quanto si evince dal programma, uno dei concetti cardine del KonMari è: tieni solo le cose che “sprizzano gioia”, butta via tutto il resto.
Ok. Certo.
Facciamo una prova.
Occhiali a forma di cuore paillettati, ricordo di una nottata epica con le amiche.
Gioia.
Abito traslucido in materiale infiammabile, acquistato a Porta Palazzo per partecipare a un finto matrimonio in qualità di finta zia.
Gioia, gioia!
Il cane Poverino aka Il peluche più triste del mondo, regalatomi da mia madre durante la maturità, quando mi aggiravo disperata per casa mangiando Plasmon e ripetendo che l’esame sarebbe stato un fiasco per via dei BUCHI, abissali BUCHI nel programma che ero certa di avere.
Gioia incontenibile.
Insomma, la gioia non può essere un discrimine, almeno per me. Stilla quando meno te l’aspetti, solitamente dalle entità insulse. La felicità non risiede, che so, nella canotta della salute, nella pinzatrice, nello scolapasta: articoli smaccatamente utili e a basso impatto emotivo. Sta nei ninnoli, nei cimeli. Ovvero le cose che tendo ad accumulare in modo irragionevole.
Al quesito “Ti fa sorridere parecchio?”, credo sia preferibile un banale “Hai usato questo oggetto negli ultimi sei mesi, di grazia?”.
Probabilmente non colgo l’afflato spirituale del procedimento.
Il mio metodo è non avere metodo.
Ogni due anni proclamo giornate campali in cui rovisto, archivio e butto via convulsamente, facendo una fatica nera e maledicendomi per non essere stata in grado di lavorare al mantenimento.
Quest’estate ho sventrato il mio guardaroba e ne sono usciti altri quattordici, un campionario di orrori dei primi anni Duemila con cui ho ripercorso la mia parabola liceale. Dall’occupazione al veglione in svariati comodi look.
Sono riemersi tre, e dico tre di quei pantaloni larghi col cavallo basso e l’elastico sulla caviglia che andavano fortissimo intorno al 2004. Ho fatto un trasloco cinque anni fa, perché non me ne sono liberata? Pensavo di giocarmeli durante un party a tema Le mille e una notte?
Nelle vacanze di Natale è toccato alla cucina: ho trovato crodini scaduti dal 2015 e un set di coltelli da formaggio intonsi, scampati alla mia parentesi dairy free.
Sono grandi manovre strazianti e impegnative, che mi provano nel profondo.
Eppure c’è una punta di sordo piacere, in quel fastidio. Alla sera, sudata e tentata di buttarmi io stessa nel pattume, guardo gli scaffali snelli e godo fortissimo.
Bello, l’ordine. Maledizione.
Che il segreto della felicità di cui parla Marie Kondo sia tutto lì?
Che il magico potere del riordino dimori in quella sensazione di compiuto appagamento misto a stress post traumatico?
Ci penserò su stringendo Poverino il cane, seduta sulla mia valigia di Capodanno ancora da disfare.