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Il giorno in cui i grandi hanno salvato i bambini

Il giorno in cui i grandi hanno salvato i bambini

Bambini! Avete sentito la notizia? È successa una cosa grossa. Una cosa da salutare con applausi, saltelli sul posto e grida sguaiate. Il giorno ventisette ottobre duemilaventuno siete stati salvati. Voi bambini, tutti. Un fatto pazzesco.

Eravate a tanto così da un pericolo terribile, dicono.
Un mostro che divora le famiglie, dicono.
Una creatura fluida e viscida che si insinua nelle scuole, dicono.
Ma alcuni adulti valorosi – ZACCHETE! – vi hanno difeso brandendo una tagliola. Si sono spesi per voi, hanno lottato per voi. Dicono.
Se è stato rischioso? Sicuro! Hanno dovuto agire nell’ombra, strisciando nel fango per non essere visti. Ci vuole coraggio…

Insomma, da oggi per voi e per tanti il mondo diventa un posto più felice. Da oggi, è possibile continuare a fare le piccole cose di sempre sentendosi un po’ più leggeri. Tipo deridere una femmina in quanto femmina, insultare un maschio perché gli piacciono i maschi, prendere in giro una persona per la sua disabilità. Robe così.

Beh? Cosa sono quelle facce?
Su, su. Anche se non ci state capendo nulla, fidatevi. I grandi credono che questo sia il meglio per voi. Si sono spesi per voi. Lo hanno fatto per voi.

Dicono.

Però adesso che ci penso, in effetti, forse non lo hanno fatto per te, in prima fila, col moccio al naso: sei una femmina. E neanche per te laggiù in fondo, sulla sedia a rotelle. Probabilmente non per te, lì a sinistra: hai due mamme. Sicuramente non per te, che pensi sempre a quel tuo compagno di calcio. E nemmeno per te, che inizi a farti domande sulla tua identità. E neppure per te, né per te, né tantomeno per te, purtroppo. Per te forse… no, come non detto, per te no.

Lo hanno fatto per gli altri, quelli che rimangono. Siete comunque un bel numero.

“Qualcuno pensi ai bambini maschi etero cis e abili”: non era questo lo slogan?

Che hai? C’ho il languishing

Languishing

Che hai? C’ho il languishing.
Languisco parecchio. Comincio alle otto e smetto a tarda notte.
La resilienza ha rotto, si è resiliato a sufficienza. Mettiamo via i racconti su come assorbiamo gli urti della vita, smettiamo di ripeterci che siamo bravi a piegarci senza andare in pezzi. Gridiamolo forte: SIAMO FATTI DELLA STESSA SOSTANZA DI CUI È FATTO LO STRACCHINO. In questi tempi grami, vaghiamo tremolanti e mollicci alla ricerca di senso. Non solo ci spezziamo: ci squagliamo proprio.
È il languishing: lo dicono gli psicologi, lo ripetono i giornalisti e onestamente sono troppo fiacca per mettermi lì a dissentire.

Dopo mesi di ansia feroce, letture febbrili e ricerca furiosa, mi trovo ad attraversare la palude del meh. Pochi slanci, zero voglia. Persino il Covid non mi agita più come una volta. E dire che sembra ieri che ansimavo come un carlino solo a evocarlo.

La verità è che siamo stati sorpresi tutti da un disagio troppo grande. Abbiamo desiderato mettere a frutto la solitudine per tirarne fuori qualcosa di utile e ci siamo biasimati le volte che non ci è riuscito. Ci siamo rammaricati quando la bellezza – che pure c’era – non sembrava abbastanza. Nei mesi abbiamo resistito all’eterno ripetersi delle lavastoviglie, abbiamo fissato il nostro ombelico e il nostro abisso, abbiamo sopportato pure il coprifuoco applicato alle passioni: le passeggiate sì, il cinema più avanti, i viaggi chissà. In molti abbiamo perso qualcuno, tutti abbiamo perso qualcosa. Ora riapriamo, ma intanto le ferite non si sono chiuse mai.

Ebbene, rivendico la mia inedia profondissima e il mio tedio abissale. Mi affranco dalla narrazione enfatica onnipresente: a tratti epica, a tratti drammatica, a tratti arrabbiata.
Questa quasi vita è quasi bella e nessuno scriverebbe canzoni su qualcuno di cui è quasi innamorato.

La speranza è che tra un mese rileggerò queste parole con la testa brilla e le orecchie piene di risate, e penserò: toh, sembra ieri che languivo.

 

P.S. Ho scritto questo testo due settimane fa. Ora sto meglio, ma ho deciso di pubblicarlo come memoria delle mie alterne emozioni. Magari qualcuno là fuori ci si può riconoscere. 🙂

Giorno ventotto del duemilaventuno

duemilaventuno

Giorno ventotto del duemilaventuno.
Quanto manca all’estate? Finirà questo buio?

Giorno ventotto ma sembrano mille
Mi sveglio di botto, sognavo conchiglie.

Sognavo di mare, di aria e risate.
Sognavo di baci su pizzichi d’ape.

Sognavo ma adesso riaccendo la luce,
spalanco la faccia sull’alba che schiude.

Ho il ciclo da giorni, la verve di un koala.
Ho ansie massicce in un mondo che frana.

Un nodo alla gola, il cuore fa un tonfo.
Mi blocco, riparto, respiro più a fondo.

Che cosa mi metto? La tuta, la felpa.
Mi guardo immutata, mi penso diversa.

Bambini buongiorno, che bel buonumore!
Un bacio e poi scuola, io corro in riunione.

Un balzo nel petto, di nuovo, che noia!
Accendo la webcam, non sono più sola.

Il video va a scatti, tu invece mi senti?
Sei in muto. Ti ascolto. Adesso vi ho persi.

Che faccio? Presento? Lo schermo si vede?
Scusate un secondo, ha suonato il corriere.

E l’aria mi manca. Ancora una volta.
È il corpo che insiste: “Ascoltami, forza!”

Perché in questo tempo di assenze e silenzi,
s’è fatta più forte la voce dei sensi.

Mi dice: “Va bene che non ti stia bene
di vivere giorni che inseguono sere”.

E siamo al ventotto del duemilaventuno.
Se il peggio è passato, quando arriva il futuro?

Il fantasma dell’anno passato

2020

La sera del 31 dicembre, mia madre e mio padre hanno deciso di guardare online il messaggio di fine anno di Sergio Mattarella. Nei momenti difficili occorre compattarsi intorno alle istituzioni, farsi comunità, ritrovare la solennità di certi riti collettivi, eccetera.
Mentre il paciosissimo Presidente della Repubblica parlava, nei miei genitori montava l’indignazione.
Ma perché non fa alcun riferimento alla pandemia? Come mai ringrazia gli astronauti e non i medici? Sta ignorando le sofferenze di tanti italiani! E per finire cosa fa? Augura a tutti un buon 2020! Che figuraccia…

La sera del 31 dicembre, mia madre e mio padre hanno deciso di guardare online il messaggio di fine anno di Sergio Mattarella. Ma era quello del 2019.

Ecco. Oltre ad aver confermato la stima per l’allegro duo che mi ha messa al mondo, questo episodio mi è sembrato un modo assai puntuale e tragicomico per chiudere il 2020: l’anno che tutti vorremmo azzerare e riscrivere in modo totalmente differente.
366 giorni che mi hanno tolto una zia, una nonna, il mio caro medico di famiglia, il fiato, talvolta il senno. Ma non il lavoro, ed è già molto, me ne rendo conto.

Questa settimana i bimbi sono tornati a scuola, gonfi di cioccolato e vizi natalizi. Io ho dismesso la divisa da vacanziera (tuta, mollettone, libro) per indossare quella da smart worker (tuta, mollettone, computer). Sono in fibrillazione per il nuovo inizio? Macché. Il succo a questo giro non era tanto dare il benvenuto al 2021, ma il benservito al 2020. Mantengo basse le aspettative, avanzo guardinga.

Sommersa dai calendar e dalle videoconferenze in ciabatte, immagino quest’anno disgraziato alle prese con un passaggio di consegne da incubo. Ha tutti gli occhi addosso, l’ansia da prestazione è alle stelle e la sua agenda dev’essere qualcosa tipo:
Chiamare la democrazia americana per sentire se sta bene.
Vaccinare SETTE MILIARDI di persone ASAP.
Ci sono 900 messaggi senza risposta dalla Bosnia. Continuare a ignorarli?
MEMO: spegnere il riscaldamento globale prima di uscire.

2021, ti aspettano grandi sfide, scusa se ti abbiamo accolto malamente. Siamo stanchi, disillusi, spesso tristi. Facciamo così: tu prova a mettercela tutta, noi aggiungeremo la nostra parte.
E se le cose non dovessero andare secondo i piani, potremo sempre dare la colpa all’anno precedente.

La vera storia dell’Enorme Anti-Covid

Anti-Covid

L’Enorme Anti-Covid è un tizio massiccio e sgradevole che di tanto in tanto si assesta sul mio stomaco e mi agguanta la gola. Così, per gradire.
Si è palesato una notte di due mesi fa, quando mio figlio ha avuto una brutta crisi respiratoria che ci ha fatto temere. Una notte febbrile, ma finita bene. Dell’happy ending, però, all’Enorme Anti-Covid sembra non interessare. È arrivato, ora vuole restare.

Si muove lento, girandomi intorno fino alla vertigine. Col suo alito pestilenziale soffia dove fa male. Mi porge lo schermo: hai letto questa? Millemila contagi solo negli ultimi venti minuti.
Oh! Un altro dissing tra virologi, non te lo perdere!
Dai, stando a questi articoli il vaccino arriverà sicuramente alla fine dell’anno, ma non prima della primavera 2021, di certo tra l’autunno e l’inverno del 2025, forse mai e moriremo malissimo.
Ti misuri la febbre? Eh? Che ne dici? Da quanto non ti misuri la febbre? Come sei messa a ossigeno? Perché non vedo un saturimetro, qui?

In un film di Nolan, l’Enorme Anti- Covid sarebbe il rumore di fondo, quel BRAAAAM che ti prende le viscere. Non un commento sonoro che muta insieme alla storia, ma una vibrazione ostinata e costante che tutto sovrasta, che altera i fatti, che spezza ogni ritmo. E tu ci provi a tenere le fila del film, ma ecco che BRAAAAM, giunge altra confusione ad arruffarti la trama e la pancia.

All’Enorme Anti-Covid non serve il mio aiuto per crescere: si nutre da sé, si nutre di se. Se il virus colpisse davvero il tuo bimbo fragilino? Se fossi proprio tu a contagiare tuo padre? Se passeremo l’inverno a infilarci tamponi nelle cervella? Se arriverai a odiare questa seccante nuova normalità del cazzo? Se finiremo chiusi in casa a impastare e imprecare?

Che spassosa compagnia, l’Enorme Anti-Covid.

La sera si siede tra me e Matteo sul divano, io mi spavento e mi viene il fiatone. Hai voglia a dire “dai, non pensarci”, quando un tizio ingombrante ti alita addosso dal niente, arriva e tu non ne puoi nulla. E ti cala la vista, e ti manca il respiro, e ti salgono i battiti.

L’Enorme Anti-Covid è mio e solo mio, ma so che qualcuno riceve le visite dei suoi compari molesti: il Colosso Che Rode, il Gigansia, il Grosso Groppo – tra gli altri.

L’ansietà ha un R0 di tutto rispetto, eppure nessuno si è messo a contare i contagi. Siamo in tanti, tutti diversi, anche molto distanti. Ad accomunarci c’è la tachicardia, certo, ma anche una certezza incrollabile: per questo Halloween ci travestiremo da 2020.

Filastrocca della mascherina

Cos’hanno in comune Geco, Gufetta
e Gattoboy fermo nell’ombra che aspetta?
Te lo dico io: si son mascherati
per celarsi allo sguardo dei nemici giurati.

E se ti dicessi che anche tu, come loro,
puoi sfidare i cattivi e salvare un tesoro?
L’eroe mascherato stavolta sei tu:
ascoltami bene e ti svelo di più.

C’è in giro un mostrino piuttosto fetente,
un virus noioso che ammala la gente.
È piccolo come una punta di spillo
eppure nessuno può stare tranquillo.

Gli piace nascondersi nella saliva,
non sai dove va, non sai quando arriva.
Tra le goccioline svolazza su e giù
se stai chiacchierando o ti scappa un ecciù.

Ma tu puoi sconfiggerlo: devi essere astuto
e non farlo volare di starnuto in starnuto.
Indossa con cura la tua mascherina
e sbarra la strada alla bestiolina.

E qui viene il bello, lo sai che ti dico?
Di eroi mascherati ce n’è all’infinito.
Ormai sono ovunque: per strada e al mercato,
al parco, sul bus, in bici e nel prato.

Abbiamo imparato a restare distanti
senza sentirci soli, perché siamo tanti.
Al Coronavirus facciam la linguaccia,
con la mascherina a coprirci la faccia.

Il volto nascosto è un superpotere:
ridiamo con gli occhi e riusciamo a vedere
dettagli che prima sfuggivano ai più
in un colpo di ciglia o uno sguardo all’insù.

Per questo ti spetta un grazie sincero,
hai tanto coraggio e puoi esserne fiero.
La salute è di tutti e a salvarla chi è?
Ogni eroe mascherato, come me e come te.

 

 

P.S. Questa filastrocca è nata per preparare i nostri gemelli all’uso delle mascherine (e più in generale al distanziamento sociale). Abbiamo pensato di condividerla, perché magari pure voi conoscete dei piccoli umani con un sacco di domande e una fissa per le frasi in rima.

C’è stato un mondo, amore mio

mondo

New York. Un piccolo locale serve pancake con sciroppo d’acero. Ci sono i divanetti imbottiti e i camerieri che versano il caffè dalle caraffe. Siamo venuti qui di proposito per l’ultima colazione a Manhattan: ci piaceva l’idea di chiudere la vacanza con uno stereotipo americano. Che scemi.
Ci alziamo in volo sui palazzi e siamo a Brooklyn. Ecco la libreria all’angolo, diamo di nuovo un’occhiata. È piena di edizioni illustrate e deliziose inutilità di cartoleria, ricordi? Seguimi ora, stacca i piedi dall’asfalto. Guarda, l’oceano è già laggiù.

Tokyo. Petali rosa sui ciliegi e per terra. Un parco che trabocca di una bellezza così definitiva e mistica, proprio non te lo aspetteresti accanto a uno stradone. Hai ragione, in Giappone continuiamo a inciampare nella meraviglia. Due gemelline corrono sul prato, la stessa camicia bianca, le gambe cicciotte ancora esitanti. Donne addette alla manutenzione, chine sull’erba, scandagliano il terreno con un minuscolo punteruolo, in cerca di piccole radici infestanti. Gruppi di giovani fanno hanami all’ombra degli alberi in fiore. I grattacieli tutt’intorno, da qui, sembrano conformazioni primordiali e magnifiche. Sul ponte di legno provo a fare una foto panoramica con l’iPhone, la cancello perché non so come farci stare tutto questo.

Eccoci, sotto di noi di nuovo acqua e mare e acqua. Lascia che mi bagni un attimo i piedi, poi ripartiamo. Sorvoliamo la costa ligure, il borgo arroccato e infine l’appartamento con le tende blu. Il letto è irresistibile come quella volta che siamo scappati dai figli per fare gli innamorati.

Adesso dammi la mano. Librati ancora. Planiamo sulla strada che abbiamo attraversato migliaia di volte. Oltre il prato c’è una casa gialla. Una scala. Uno zerbino con la scritta “welcome” che da giorni non da il benvenuto a nessuno. Oltre la porta, un bimbo dai riccioli biondi gioca con le macchinine, steso sul pavimento. Tiene la testa a un centimetro da Saetta McQueen, proiettato dentro un film di cui è regista, rumorista, dialoghista.
Una bimba imbronciata distribuisce cibo in plastica ai suoi pupazzi.

C’è un uomo in cucina, sei tu.
Carichi la lavastoviglie e mi rassicuri: “Penso io ai piatti, così mi tengo occupato”.
C’è una donna seduta al tavolo, sono io.
Bevo il caffè domandandomi se questa tua frase sia più gentile o più drammatica.

Come sto? Bene.
Come sto? Non so, non rispondo.

Risiedo in questo spazio piccolo e in questo tempo limitato, faccio del mio meglio, il mio corpo come primissimo confine, la mia mente come scatola che proprio non voglio riempire più del necessario. La superficie è l’unico habitat che mi sia congeniale, al momento. Ogni volta che provo a guardare davvero dentro alle cose, rischio il capogiro.

Ieri abbiamo costruito un calendario insieme ai bambini. Mentre coloravamo e ritagliavamo, i giorni si sono fatti materici, hanno smesso di avere tutti la stessa confusa inconsistenza. È stato bello.

C’è stato un mondo là fuori, amore mio. Ne verrà un altro. Ogni tanto volo via con te e sogno lidi migliori. I nostri.

Svoltare la clausura grazie agli anni novanta

anni novanta

Per assicurarsi momenti di distensione in questi tempi difficili, c’è chi sceglie la mindfullness, il total body, il binge watching. Io rivendico e promuovo la pratica del “nineting” – o “novanting”, se preferite. No, non è un’allusione alla posizione dolorosa in cui ci ha messi il virus, ma un omaggio alla decade delle boyband mechate, delle coreografie improbabili, delle hit zeppe di “yeah” e “baby” da strillare a occhi chiusi. Gli anni novanta.

Il nineting consiste nell’ascolto estemporaneo del miglior pop del decennio 1993-2003, supportato, se possibile, dal canto a squarciagola di ritornelli insulsi e da mossette plastiche. L’obiettivo è rendere la quarantena non dico spassosa, ma quantomeno tollerabile.
La potenza di questa pratica mi si è palesata per caso, quando sono incappata nella versione domestica (e anziana) di “I Want It That Way”, postata dai Backstreet Boys in pieno lockdown. Era una mattina grigia di un prevedibile giorno ai domiciliari, eppure gli effetti benefici si sono rivelati immediati e piuttosto sostanziali. Vado dunque a elencarli:

  • Evasione: il nineting evoca ricordi scemi da un’era scema, almeno per quelli della mia generazione. Impossibile trattenere il sorriso mentre le Spice Girls ocheggiano allegramente nei loro abiti sintetici.
  • Leggerezza: il nineting si alimenta di contenuti basici e per questo rassicuranti. Il mondo fa meno paura, quando puoi gridare: EVERYBODY YEAH ROCK YOUR BODY YEAH.
  • Dinamismo: il nineter d’esperienza, sa che i brani sono quasi sempre abbinati a balletti idioti, di facilissima riproducibilità (anche se vi trovate in salotto e siete sprovvisti dei più elementari rudimenti di danza). Fai movimento, sudi e ti spogli del fardello della tua dignità. Gratis!
  • Benessere: il nineting libera endorfine – lo dice chiunque debba promuovere una pratica, chi sono io per fare diversamente? Attraverso il canto sguaiato, poi, permette di allentare anche le tensioni più profonde.

Aggiungo che si può fare nineting da soli, in videoconferenza con gli amici o dal vivo insieme ai propri famigliari. Senza bisogno di abbonamenti o di istruttori collegati da remoto.
Ieri, ad esempio, ho cantato “Baby One More Time” mentre mia figlia ballava vestita di strass, ed è stato alquanto liberatorio. Come effetto collaterale, devo riportare che la bambina mi ha poi chiesto di ripeterle il ritornello duecentosessantasette volte – perché sì, il nineting crea dipendenza.

Pertanto, una volta finita la lezione di yoga, vi invito ad arrotolare il tappetino e passare dall’OHM all’OHMANNAGGIA L’HO FATTO ANCORA UNA VOLTA, evocando lo spirito di Britney Cortellesi.
Provate e mi direte. Tanto, parliamoci chiaro, cos’altro avete da fare?

Pulizie di quarantena: ovvero come ho provato a difendermi dall’ansia

Sanificato

Nell’ultimo mese non mi sono iscritta a un videocorso di tip-tap, non ho ripreso a suonare il pianoforte, non ho rispolverato il mio tedesco, non ho intagliato suppellettili.
Nell’ultimo mese non ho incontrato folgorazioni sulla via tra cucina e divano, non ho ampliato la mia nozione del mondo e degli uomini, non ho rinvigorito alcun nobile convincimento.
Nell’ultimo mese non ho panificato, incredibile a dirsi, ma in compenso ho sanificato. Ho sanificato parecchio.

Ho cominciato con le superfici e le mani, da brava. Ho poi proseguito coi pensieri, che erano stati contaminati da un male sconosciuto e potente, da un’ansia senza rimedio.
Ci sono scivolata dentro piano.
Ero tra quelli che hanno iniziato ad allarmarsi moderatamente già dal caso di Codogno, un po’ perché moderatamente allarmati erano i divulgatori che seguo, un po’ per innata ipocondria, un po’ perché conosco e amo persone “a rischio”.
Sta di fatto che il lockdown ufficiale è arrivato quando già da qualche giorno vagavo per casa con lo sguardo attonito del chihuahua, in preda alla tachicardia.

Nella settimana dei cori dal balcone, la mia gola si è esibita in un nodo stretto e costante, culminato con il primo attacco di panico della mia vita. Il fiato che manca, detestabile analogia con il virus, la testa che sfuma in una paura sorda.

Ho reagito proclamando l’inizio delle Pulizie di Quarantena, con un contro-decreto che, al pari di quelli di Conte, ha fissato come obiettivo la sopravvivenza. Mia e dei miei coinquilini.

Dispacci apocalittici? Spruzzata di alcol.
Fake news complottiste? Passata di acqua ossigenata.
Rabbia da social? Fiotti di Lysoform.
Video lacrimevoli? Manata di Amuchina.

Nell’ultimo mese, in definitiva, mi sono protetta. Ho affrontato in ciabatte una quotidianità fatta di piccole cose, lasciando che a tenermi a galla fossero pochi dati di realtà, sempre quelli, senza merlettature.
Ho due bambini di quattro anni piuttosto spassosi. Sufficientemente grandi per intrattenersi con profitto, abbastanza piccoli da non capire fino in fondo cosa stia accadendo.
Ho una casa accogliente dove concedermi anche la solitudine.
Ho una connessione che funziona discretamente.
Ho un lavoro – mio Dio – ho un lavoro.
Ho un uomo con cui ruzzolare sul letto e ridere nel disagio.
Ho la sceneggiatura originale di Fleabag e tanto tempo per leggere.
Ho amici per giocare a Pictionary da remoto.

Ho i miei dati di realtà. Ho le mie quotidiane fortune.

Fuori dalla porta sta accadendo qualcosa di tragico: non è il momento delle epifanie, almeno per me.
È un tempo essenziale, fatto di poco. Ma in quel poco, ora, io esisto.

Alle mie donne da abbracciare

donne

A mia nonna, che ogni volta che racconta una barzelletta scoppia a ridere prima del finale, lasciandoci in sospeso. E ci prova a riprendere il filo, con gli occhi lucidi e le mani sul volto, ma a quel punto all’ilarità della storiella si è aggiunta l’assurdità della situazione, e lei si lascia vincere dal riso.
A 85 anni ha ideali incrollabili e abita la solitudine con una dignità antica.
Mia nonna che parla del suo Aldo come se avesse appena lasciato la stanza e cura da mezzo secolo i fiori di quel solo amore.

A mia madre, che nel campionato di intuito femminile vincerebbe per distacco. Ha indovinato il finale di Inception quando ancora la moglie di Leo non s’era nemmeno vista, per dire.
La mia mamma morbida, la mia mamma-casa, così dolce da far dimenticare quanto sia stoica. Tutti le abbiamo chiesto tanto e lei hai sempre trovato le risposte.

A mia figlia, che a carnevale in un mondo di Else ha voluto essere un cane, ed era un dalmata di rara fierezza. Lei che se ne frega, ride a briglie sciolte, ama e detesta risolutamente.
Gradisce vincere a Memory. Adora gli sberluccichi. Disprezza gli adulti che cantano in gruppo – non intonate “tanti auguri a te” durante i compleanni, abbiate un po’ di dignità.
Grida “SONO UN CAVALIERE!” brandendo ciabatte, ha un cassetto di tesori in vera plastica e ogni sera bacia la mia pancia che le ha dato la vita e un fratello.
Sono stata una bimba un po’ pallida: questa sua infanzia esuberante e femmina me la godo e la proteggo.

Alla mia amica grande, che è stufa che le dicano quanto sia forte. Ma lo è, dannazione, e la sua forza è condanna e salvezza. Mi ha insegnato che la malattia non si definisce da sé: è soprattutto il modo in cui la incarni, è quello che ci fai, di quel tuo corpo che non sta alle regole. E lei ha firmato ogni pagina della sua storia con una presenza che brilla e si impone, anche nel dolore. Non ultimo, è stata la mia alleata scema nell’età della stupideira. E la stupideira è per sempre.

Alla mia amica bella, che sa tutto di calcio e sfoggia manicure impeccabili, perché dentro agli stereotipi la realtà sta strettissima. Intelligente da far venire i nervi, in equilibrio quando gli altri sembrano vacillare, plana elegante e arguta sopra la gelosia, le aspettative, la rabbia. E assesta uno schiaffo alla narrazione che ci vuole sempre più emozionate, delicate, mestruate.

All’amica che è andata a prendersi la sua rivincita più in là, a quella che splende e nemmeno lo sa, alla madre a tempo pieno perché si è riempita il tempo di vita, a quella che ha vissuto una prova con grazia assoluta, alla manager che ha difeso ogni volta il proprio valore, all’intrepida che ha costruito un progetto che le somiglia.

A voi dedico i miei pensieri in questo tempo confuso, donne mie. E oggi che mi sento spersa, stringo la mia bambina e con lei vi abbraccio, qui dentro, per ritrovarmi.