La buttafuori: una storia sul cibo e i suoi contorni

Il mio piatto era un circolo privato dove entrava solo chi era in lista: pesce sì, carne no, ceci sì, uova no, tofu sì, tuma no. Pesavo 45 kg, ma facevo la buttafuori.

E dire che prima, da ragazza, mangiavo tanto e di gusto: con una mamma per metà romagnola e un papà dirigente in Ferrero, mi dividevo tra lasagne e Nutella. Bruciavo tutto chiacchierando fortissimo con le amiche e stordendomi di sogni: avevo vent’anni ed ero in forma senza nemmeno pensarci.

Poi sono arrivati i quasi-trenta: ero quasi matura, quasi indipendente, quasi adulta.
Un atavico perfezionismo mi spingeva a non vedere di buon occhio tutti quei “quasi” e a chiedermi strenuamente di più. Le scelte, tutte, andavano meditate con cura.
Se la vita incedeva comunque senza che potessi incastrarla in una regola, se le emozioni mie e degli altri sfuggivano al controllo, nel piatto era tutto diverso: dentro quei confini il mondo era sotto il mio esclusivo dominio, ed esercitare il potere mi faceva sentire consapevole.
Così sono diventata buttafuori, in piedi sul ciglio del pasto a decretare cosa fosse ammesso e cosa no. Nulla di patologico, ma a furia di voler mangiare sano, finivo semplicemente per mangiare poco.

Ci è voluta la gravidanza per decidere di sospendere momentaneamente la selezione all’ingresso: desideravo che le mie creature ricevessero tutti i nutrienti necessari. Singolare come un’attenzione così basica non riuscissi a dedicarla per prima a me stessa.

Ed ecco che – boom! – sono nati i gemelli, e il mio fisico ha accusato l’urto in un modo che non avevo previsto. Crepe intime, ben nascoste dietro ai miei jeans taglia 38.

“Com’è possibile che tu abbia fatto due gemelli?”
“Che linea!”
“Ti vedo benissimo!”

Ogni commento, la mia magra vittoria: “Peso poco, sembro bella, decido io”.

Il corpo delle donne è aperto: accoglie la vita e la offre, è esposto ai giudizi di chi lo riduce a strumento di seduzione, è creatività pura contrapposta a canoni di rara banalità. Ora l’ho capito davvero. Correre dietro alla perfezione è come andare sul tapis roulant: tanta fatica per non arrivare da nessuna parte.

Ho sentito lo schiaffo, ma alla fine mi sono svegliata. Ho lavorato su di me, per tornare a godermi una pizza filante senza sentirmi una pericolosa sovversiva. Ho buttato fuori, sì. Questa volta la rabbia, la mania di controllo e quel fastidioso super-io calvinista che era solito fissarmi con l’espressione allegrona di Victoria Beckham.

Oggi ho conquistato il mio obiettivo: finalmente non sono più sottopeso.
Festeggerò al ristorante insieme a chi amo, di fronte a una quantità imbarazzante di sushi. E no, Victoria Beckham non sarà nella lista degli invitati.
Sono una buttafuori dentro, io.

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