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Alle mie donne da abbracciare

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A mia nonna, che ogni volta che racconta una barzelletta scoppia a ridere prima del finale, lasciandoci in sospeso. E ci prova a riprendere il filo, con gli occhi lucidi e le mani sul volto, ma a quel punto all’ilarità della storiella si è aggiunta l’assurdità della situazione, e lei si lascia vincere dal riso.
A 85 anni ha ideali incrollabili e abita la solitudine con una dignità antica.
Mia nonna che parla del suo Aldo come se avesse appena lasciato la stanza e cura da mezzo secolo i fiori di quel solo amore.

A mia madre, che nel campionato di intuito femminile vincerebbe per distacco. Ha indovinato il finale di Inception quando ancora la moglie di Leo non s’era nemmeno vista, per dire.
La mia mamma morbida, la mia mamma-casa, così dolce da far dimenticare quanto sia stoica. Tutti le abbiamo chiesto tanto e lei hai sempre trovato le risposte.

A mia figlia, che a carnevale in un mondo di Else ha voluto essere un cane, ed era un dalmata di rara fierezza. Lei che se ne frega, ride a briglie sciolte, ama e detesta risolutamente.
Gradisce vincere a Memory. Adora gli sberluccichi. Disprezza gli adulti che cantano in gruppo – non intonate “tanti auguri a te” durante i compleanni, abbiate un po’ di dignità.
Grida “SONO UN CAVALIERE!” brandendo ciabatte, ha un cassetto di tesori in vera plastica e ogni sera bacia la mia pancia che le ha dato la vita e un fratello.
Sono stata una bimba un po’ pallida: questa sua infanzia esuberante e femmina me la godo e la proteggo.

Alla mia amica grande, che è stufa che le dicano quanto sia forte. Ma lo è, dannazione, e la sua forza è condanna e salvezza. Mi ha insegnato che la malattia non si definisce da sé: è soprattutto il modo in cui la incarni, è quello che ci fai, di quel tuo corpo che non sta alle regole. E lei ha firmato ogni pagina della sua storia con una presenza che brilla e si impone, anche nel dolore. Non ultimo, è stata la mia alleata scema nell’età della stupideira. E la stupideira è per sempre.

Alla mia amica bella, che sa tutto di calcio e sfoggia manicure impeccabili, perché dentro agli stereotipi la realtà sta strettissima. Intelligente da far venire i nervi, in equilibrio quando gli altri sembrano vacillare, plana elegante e arguta sopra la gelosia, le aspettative, la rabbia. E assesta uno schiaffo alla narrazione che ci vuole sempre più emozionate, delicate, mestruate.

All’amica che è andata a prendersi la sua rivincita più in là, a quella che splende e nemmeno lo sa, alla madre a tempo pieno perché si è riempita il tempo di vita, a quella che ha vissuto una prova con grazia assoluta, alla manager che ha difeso ogni volta il proprio valore, all’intrepida che ha costruito un progetto che le somiglia.

A voi dedico i miei pensieri in questo tempo confuso, donne mie. E oggi che mi sento spersa, stringo la mia bambina e con lei vi abbraccio, qui dentro, per ritrovarmi.

Cose che ho imparato sull’età adulta

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Le tue occhiaie hanno un nome, un cognome, una ragione sociale e un indirizzo a cui spedire i tuoi insulti.

Tra le follie da fare una volta nella vita, includeresti uscire in inverno senza canottiera.

Hai una professione rispettabile e un mutuo, ti destreggi fieramente tra le responsabilità, paghi le tasse. Ma quando torni a casa dei tuoi genitori, la tua spina dorsale assume la consistenza dello squacquerone e ti lasci servire con manifesta indolenza, fermandoti a un passo dal chiedere la paghetta prima di congedarti.

Hai davvero capito chi sei. Il che è bellissimo, se sai come usarti.

Le amicizie sono poche, stupende, rotonde e consapevoli. Non devi fare colpo su nessuno e vivaddio non ci sono aspettative. Solo amore.

Sei maturata e lasci cadere tutto più facilmente. Anche la pelle, purtroppo.

Il climax delle tue paranoie idiote sulla bellezza fisica è coinciso con il climax della tua bellezza fisica. Ora lo sai.

Le hit latine passano da moderatamente tollerabili a lesive seguendo la tua curva di crescita.

Gli orgasmi sono una splendida certezza e uno dei motivi per cui ti faresti bella con la te diciottenne.

Quando senti dire “sodo” non pensi a un gluteo, ma all’uovo preferito da tuo figlio.

Il fatto che sia esistito un tempo in cui i dialoghi di Dawson’s Creek ti sono sembrati plausibili – o peggio godibili, è per te motivo di grande sconcerto*.

*Piccola parentesi finale: provate a riguardare adesso un episodio di Dawson’s Creek. L’ho fatto un paio di mesi fa per onorare il ventennale della serie ed è stato disarmante. Parlano tutti un sacco e con grande trasporto, perlopiù di questioni irrilevanti. E mentre cerchi a fatica di decifrare il perché di tanta verbosissima foga, la sceneggiatura ti regala vette di assurdità.
Tipo: in una delle prime puntate, Dawson fa prove di bacio in salotto, LIMONANDO UNA MASCHERA DI GOMMA con le fattezze di Joey Potter.  Potrebbe bastare. Ma no, davanti a lui c’è suo padre che lo istruisce dalla poltrona come un maestro Jedi, tronfio e soddisfatto. Potrebbe bastare. Ma no, nascosta dietro una piglia c’è Joey che li spia. Inorridita? Terrorizzata? A disagio? Macché: intenerita, come se avesse colto un cucciolo di labrador a frugare nel cesto della biancheria.
Roba che Lost in confronto è una docu-fiction.

C’era una donna: la storia che non vorrei ascoltare più

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Il giorno in cui uno sconosciuto ha allungato la sua ombra sopra di me, indossavo una gonna. Avevo otto anni e decisi che non ne avrei mai più messa una. Pantaloni a oltranza: questa la mia reazione, l’unica nel silenzio in cui mi sono trincerata per mesi dopo l’accaduto. Istinto di autoprotezione oppure tentativo di non provocare più uomini come quello?
Ero una bambina, e con quella risoluzione – abbandonata poi in un’estate di risate – lasciavo che i contorni tra le responsabilità sfumassero. Ero una bambina, e già mi trovavo a fare i conti con una vergogna incolpevole.

Facevo le medie, quando dalle auto signori di mezza età hanno cominciato a rivolgermi certe parole e smorfie. Erano segnali da un mondo che non conoscevo, una sguaiata violazione della distanza educativa tra adulti e ragazzini.

Negli anni ho sperimentato mani invadenti nella calca di bus e discoteche, battute svilenti, tentativi di farmi sentire vulnerabile unicamente perché sola, pedinamenti. Lo so, maschi perbene all’ascolto, avete già sentito questa storia di prevaricazione: ve l’hanno raccontata compagne, sorelle, amiche, madri. Portate pazienza ancora una volta, ché la banda Pillon è là fuori e tocca restare vigili.

Quando ho assolto la funzione di procreatrice e il mio corpo è diventato un totem di fertilità, la pubblicità mi ha dato in fretta un nuovo obiettivo: resettare.
Bello il pancione, bello il miracolo della vita che cresce, bello tutto. Ma adesso lasciati di nuovo desiderare.

“Tornerò come prima?” si chiedeva la modella incinta e bellissima sul manifesto di una crema antismagliature, mentre io spingevo la carrozzina, a pochi mesi dalla nascita dei miei figli. “Tra mille domande, una certezza”, le rispondeva con irritante baldanza lo slogan del prodotto.
No no e no, avrei ribattuto io di pancia, la mia neonata pancia zebrata. Non torneresti come prima nemmeno se recuperassi ogni centimetro del corpo che avevi, perché la tua identità ha abbracciato nuovi paradigmi. Il cambiamento non è un demerito, i segni non sono una colpa. Dannata crema antismagliature con oli essenziali d’inadeguatezza e profumo d’aspettativa.

Una sera di qualche tempo fa, mi sono trovata a discutere di disparità di genere col mio compagno. La sua tesi era che in Italia gli squilibri tra i sessi non fossero affatto gravi e che spesso noi donne vedessimo il male dove non c’è. Io, così implicata nel discorso, così certa della nostra cristallina condizione di svantaggio, mi sono sentita prima offesa poi confusa. Stavo esagerando?
Ho provato a parlargli di quello che sento e vedo: violenze, atteggiamenti predatori, stereotipi duri a morire. Del bagaglio di sottomissione che la Storia ci ha consegnato. Dei messaggi contrastanti che la società riserva alle sue figlie: siate ribelli ma adorabili, ambiziose ma deliziose, forti ma gestibili.
Per la prima volta, ho sentito una distanza di vissuti quasi incolmabile tra me e lui, alleato progressista e amorevole. Ed è stato emblematico.

Così, ho riletto la mia vita e indagato quel disagio tutto nostro di vivere in un Paese in cui ogni tre giorni avviene un femminicidio. E sono giunta alla conclusione – lapalissiana, per carità – che non sia vittimismo essere vittime, per la stessa logica per cui non è buonismo essere buoni. E che sarebbe bello se gli uomini rinunciassero a spiegarci come dovremmo reagire di fronte a ciò che ci preoccupa o ci addolora.

Matteo mi ha inviato un messaggio, poi: ci ho pensato su, ieri sera avevi ragione.
Potrei rovinare questo articolo con un luogo comune, e sottolineare quanto sia sexy un maschio che ammette di avere torto.

Invece faccio gli auguri a tutte le donne, perché la strada per il pieno rispetto è ancora lunga. E auguri agli uomini che tornano sui loro passi per provare a percorrerla con noi.

La buttafuori: una storia sul cibo e i suoi contorni

Il mio piatto era un circolo privato dove entrava solo chi era in lista: pesce sì, carne no, ceci sì, uova no, tofu sì, tuma no. Pesavo 45 kg, ma facevo la buttafuori.

E dire che prima, da ragazza, mangiavo tanto e di gusto: con una mamma per metà romagnola e un papà dirigente in Ferrero, mi dividevo tra lasagne e Nutella. Bruciavo tutto chiacchierando fortissimo con le amiche e stordendomi di sogni: avevo vent’anni ed ero in forma senza nemmeno pensarci.

Poi sono arrivati i quasi-trenta: ero quasi matura, quasi indipendente, quasi adulta.
Un atavico perfezionismo mi spingeva a non vedere di buon occhio tutti quei “quasi” e a chiedermi strenuamente di più. Le scelte, tutte, andavano meditate con cura.
Se la vita incedeva comunque senza che potessi incastrarla in una regola, se le emozioni mie e degli altri sfuggivano al controllo, nel piatto era tutto diverso: dentro quei confini il mondo era sotto il mio esclusivo dominio, ed esercitare il potere mi faceva sentire consapevole.
Così sono diventata buttafuori, in piedi sul ciglio del pasto a decretare cosa fosse ammesso e cosa no. Nulla di patologico, ma a furia di voler mangiare sano, finivo semplicemente per mangiare poco.

Ci è voluta la gravidanza per decidere di sospendere momentaneamente la selezione all’ingresso: desideravo che le mie creature ricevessero tutti i nutrienti necessari. Singolare come un’attenzione così basica non riuscissi a dedicarla per prima a me stessa.

Ed ecco che – boom! – sono nati i gemelli, e il mio fisico ha accusato l’urto in un modo che non avevo previsto. Crepe intime, ben nascoste dietro ai miei jeans taglia 38.

“Com’è possibile che tu abbia fatto due gemelli?”
“Che linea!”
“Ti vedo benissimo!”

Ogni commento, la mia magra vittoria: “Peso poco, sembro bella, decido io”.

Il corpo delle donne è aperto: accoglie la vita e la offre, è esposto ai giudizi di chi lo riduce a strumento di seduzione, è creatività pura contrapposta a canoni di rara banalità. Ora l’ho capito davvero. Correre dietro alla perfezione è come andare sul tapis roulant: tanta fatica per non arrivare da nessuna parte.

Ho sentito lo schiaffo, ma alla fine mi sono svegliata. Ho lavorato su di me, per tornare a godermi una pizza filante senza sentirmi una pericolosa sovversiva. Ho buttato fuori, sì. Questa volta la rabbia, la mania di controllo e quel fastidioso super-io calvinista che era solito fissarmi con l’espressione allegrona di Victoria Beckham.

Oggi ho conquistato il mio obiettivo: finalmente non sono più sottopeso.
Festeggerò al ristorante insieme a chi amo, di fronte a una quantità imbarazzante di sushi. E no, Victoria Beckham non sarà nella lista degli invitati.
Sono una buttafuori dentro, io.

Auguri doppi

“Auguri doppi”, dicevano, e io mi accarezzavo il pancione.
Metà di loro mi guardava come se fossi un animaletto o un cupcake con la glassa: ho imparato che per molti i gemelli – e le gravide di gemelli – stanno nello scaffale Tenere Amenità, un ripiano sotto i gattini.
L’altra metà chiosava seria “ne avrai bisogno”: più una iettatura che un convenevole. Di solito erano neo genitori stanchi.

“Auguri doppi”, dicevano, mentre spingevo il passeggino senza capacitarmi di cosa fosse successo.
Se diventare madre è un’esperienza ambivalente, ritrovarsi di colpo con due figli è come avere dentro un’orchestra di 70 elementi, tutti ubriachi. Una cacofonia di emozioni: fiato alle tube e nervi alle corde.

Auguri doppi, vorrei dire adesso a quella donna che il minuto prima sorride e quello successivo è in preda ad angosce apocalittiche. Va tutto bene e se va male andrà meglio.

Auguri doppi per l’allattamento: a volte ti sentirai una mucca da latte, altre una mucca da latte felice.
Auguri doppi per il tuo corpo: quello che è stato e quello che possiedi ora. Entrambi hanno fatto di tutto per meritare il tuo rispetto.
Auguri doppi per le risposte di rito: sì sono gemelli, no sono eterozigoti, sì sono maschio e femmina, no non abbiamo altri casi in famiglia, sì in gravidanza ero un dirigibile, no non mi assomigliano per niente e grazie per averlo notato. Resisti: a un certo punto la gente smetterà di voler constatare. Ah, e Pietro avrà la tua faccia.
Auguri doppi per i gesti: alcuni li ripeti perché vuoi, altri perché devi. Accudire due neonati è tutto un fare e rifare, tu sei brava una volta di più.

Ma soprattutto, auguri doppi all’uomo che la sera ti stringe e si complimenta: “come sei forse”. Tra la decisione e l’incertezza c’è una lettera di differenza: è il genere di cose che vi fa ridere insieme.
Un amore così ti abbraccia per intero, zone grigie incluse. Dentro un amore così, puoi stenderti ad aspettare il sole.

8 marzo

C’era una bimba con lenti giganti, pensieri ribelli e frangia anni ’80.
Leggeva seduta sulla gonna a ruota. Parlava di rado e scriveva di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

Poi quella bimba si fece ragazza. Un cerchio di amiche a farle da casa,
a ridere intorno al bello del mondo. Baciava se giusto e sognava di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

La giovane infine divenne una donna. La pancia un gran tondo con dentro la vita.
Accanto un compagno di gioco e di sfida. Odiava assai poco e amava di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

E venne il dolore, ma senza bussare. Un calcio alla porta e un pugno alle attese.
La trasse nell’ombra con uno strattone. Faceva casino, lanciava le cose.
Furente pungeva, sicuro di sé.

Così quella donna si prese paura, avvezza com’era alla quiete di prima.
Chiedeva al dolore: “Sei qui, ma perché?”.
Lui non la sentiva. Sbatteva le ante, sprezzante sbraitava: “Non vali che niente”.

Fu allora che avvenne qualcosa di nuovo.
La donna salì su una sedia e gridò.

Gridò a quella bimba: “Su, parla più forte!”. Gridò alla ragazza: “Limona di più!”.
Gridò contro tutti e contro se stessa. Gridò di ogni grido che al tempo negò.

E quando la voce le si spezzò in gola, capì che il dolore l’aveva lasciata:
restava la forza per fare rumore.
Il cerchio si chiuse, la storia procede, è un giro di giostra. Chi ama vedrà.

Hola cicatrice

Ciao ruga, non ti ho vista arrivare. Ma no, no, accomodati. Posso offrirti qualcosa? Però se ti do un dito poi non ti prendere anche il contorno occhi.

Bentrovata smagliatura. Sì, va bene, hai ragione: mi ricordi di essere stata capace di qualcosa di grande. Capace tipo un bagagliaio, un frigorifero, una cisterna.
Ora stai calma però, ho capito. Non ti allargare.

Hola cicatrice. Certo che ti ho vista. No, non ti sto ignorando. È che mi hai fatto del male. Senti, riparliamone stasera di fronte a una bottiglia di olio emolliente, ti va?

Hey doppie punte, fermate quella linguaccia biforcuta. È vero, devo prenotare il parrucchiere. Lo faccio oggi. Oppure domani. Appena ho un attimo. Nel 2025.

Buongiorno cambi di programma, salve errori, benarrivate deviazioni, benvenute sbavature.
L’imperfetto è indicativo, il passato è remoto. Il presente è adesso, e adesso provo ad amarvi.