Tagpoesia

Filastrocca della mascherina

Cos’hanno in comune Geco, Gufetta
e Gattoboy fermo nell’ombra che aspetta?
Te lo dico io: si son mascherati
per celarsi allo sguardo dei nemici giurati.

E se ti dicessi che anche tu, come loro,
puoi sfidare i cattivi e salvare un tesoro?
L’eroe mascherato stavolta sei tu:
ascoltami bene e ti svelo di più.

C’è in giro un mostrino piuttosto fetente,
un virus noioso che ammala la gente.
È piccolo come una punta di spillo
eppure nessuno può stare tranquillo.

Gli piace nascondersi nella saliva,
non sai dove va, non sai quando arriva.
Tra le goccioline svolazza su e giù
se stai chiacchierando o ti scappa un ecciù.

Ma tu puoi sconfiggerlo: devi essere astuto
e non farlo volare di starnuto in starnuto.
Indossa con cura la tua mascherina
e sbarra la strada alla bestiolina.

E qui viene il bello, lo sai che ti dico?
Di eroi mascherati ce n’è all’infinito.
Ormai sono ovunque: per strada e al mercato,
al parco, sul bus, in bici e nel prato.

Abbiamo imparato a restare distanti
senza sentirci soli, perché siamo tanti.
Al Coronavirus facciam la linguaccia,
con la mascherina a coprirci la faccia.

Il volto nascosto è un superpotere:
ridiamo con gli occhi e riusciamo a vedere
dettagli che prima sfuggivano ai più
in un colpo di ciglia o uno sguardo all’insù.

Per questo ti spetta un grazie sincero,
hai tanto coraggio e puoi esserne fiero.
La salute è di tutti e a salvarla chi è?
Ogni eroe mascherato, come me e come te.

 

 

P.S. Questa filastrocca è nata per preparare i nostri gemelli all’uso delle mascherine (e più in generale al distanziamento sociale). Abbiamo pensato di condividerla, perché magari pure voi conoscete dei piccoli umani con un sacco di domande e una fissa per le frasi in rima.

Avevo un sogno piccolo

Avevo un sogno piccolo. Era entusiasta, elettrico. Gli ripetevo “Hai tempo. Calmati!”. Ma scalpitava perché voleva realizzarsi.

Avevo un sogno piccolo che mi faceva ridere, e mentre sghignazzavo non lo lasciavo crescere.
A prenderli sul serio, i sogni, poi rischi di deluderli. Così ho lasciato perdere.

Avevo un sogno piccolo, un “io-vorrei” minuscolo, di quelli che non stai nemmeno a raccontare, un sogno che puoi rimandare.

L’avevo e poi l’ho perso. Sgusciato dalla borsa. Forse sfuggito dall’agenda gonfia. Smarrito nel tragitto tra lavoro e casa. Evaporato in coda in autostrada.

L’ho perso e mi mancava il tempo per sentire che mancava, un sogno trasparente ma importante che manco io sapevo fosse aria.

È ritornato poi, incazzato nero. Chiedeva senza posa “e tu dov’eri?”. Io lo guardavo e mi riconoscevo, come in un vecchio scatto del liceo.

Avevo un sogno piccolo, ma poi s’è fatto grande. E adesso che è cresciuto, non mi conviene ridere. Tocca ascoltarlo bene e tirarmi su le maniche.

Poesia da nulla

Poesia da nulla

Brindo ai bicchieri svuotati, ai silenzi intoccati, alle ore assonnate.
Canto alle voci che non spiegano niente,
al bianco del foglio, allo scopo sfuggente.
È colmo il mio cuore, l’agenda trabocca,
è piena la testa e ribolle.
Ridatemi il nulla.
Serve il vuoto, per tracciare nell’aria i tuffi più belli.

Lo stivale rotto: pensieri sull’Italia che crolla

Italia stivale rotto

L’Italia è penisola ibrida, geografia insolita. La testa nei monti, il corpo nel mare. Una terra così non sa bene chi è: neve al mattino, a mezzogiorno salsedine.

Qui tutte le strade portano a Roma. Tranne quelle che crollano sotto agli errori, tranne quelle che scavano il volto agli anonimi. Chi rompe paga, con soldi non suoi.

È un Paese che prega che non sia troppo tardi, che liquida i morti facendoli santi. È un eterno villaggio, ma senza vacanza. L’Italia si desta commossa. Non basta.

A mio padre

Mio padre da figlio ha vissuto un istante.
È cresciuto accudendo, ha imparato colmando.
Chi gli ha dato la vita, ha preteso una tassa:
ti regalo due mani, tu non metterle in tasca.

Mamma, prendi quest’uomo con tutto il suo mondo? Prendi in sposo quest’uomo con tutto il suo ingombro?
Mamma, vuoi quest’adulto che è solo un ragazzo, dentro abiti fatti per un’altra stazza?

Mio padre era dolce di riccioli e grazia.
Mio padre era nero di barba e di rabbia.
Metteva su i Queen e a me saliva l’ansia,
in auto coi bassi fin dentro la pancia.

Mio padre che invecchia e diventa prezioso,
la testa un groviglio di fili d’argento.
Mio padre che piange coraggio ed orgoglio,
mio padre che c’è anche se non lo cerco.

Mio padre che è mio, ma mai fino in fondo.
Mio padre che è buono in un tempo che è stronzo.
Mio padre che ha scelto di essere giusto,
ché sbagliare succede nonostante tutto.

8 marzo

C’era una bimba con lenti giganti, pensieri ribelli e frangia anni ’80.
Leggeva seduta sulla gonna a ruota. Parlava di rado e scriveva di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

Poi quella bimba si fece ragazza. Un cerchio di amiche a farle da casa,
a ridere intorno al bello del mondo. Baciava se giusto e sognava di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

La giovane infine divenne una donna. La pancia un gran tondo con dentro la vita.
Accanto un compagno di gioco e di sfida. Odiava assai poco e amava di più.
Per non far rumore, per non disturbare.

E venne il dolore, ma senza bussare. Un calcio alla porta e un pugno alle attese.
La trasse nell’ombra con uno strattone. Faceva casino, lanciava le cose.
Furente pungeva, sicuro di sé.

Così quella donna si prese paura, avvezza com’era alla quiete di prima.
Chiedeva al dolore: “Sei qui, ma perché?”.
Lui non la sentiva. Sbatteva le ante, sprezzante sbraitava: “Non vali che niente”.

Fu allora che avvenne qualcosa di nuovo.
La donna salì su una sedia e gridò.

Gridò a quella bimba: “Su, parla più forte!”. Gridò alla ragazza: “Limona di più!”.
Gridò contro tutti e contro se stessa. Gridò di ogni grido che al tempo negò.

E quando la voce le si spezzò in gola, capì che il dolore l’aveva lasciata:
restava la forza per fare rumore.
Il cerchio si chiuse, la storia procede, è un giro di giostra. Chi ama vedrà.