In difesa della timidezza: perché schivo non vuol dire schifo

“Ti saresti dovuta presentare qui da noi camminando sulle mani, come minimo”.

Avevo ventidue anni e quello era il primo colloquio di lavoro della mia vita. Mentre ascoltavo il mio interlocutore elencarmi le ti-giuro-spassosissime trovate degli altri candidati per farsi notare, sentivo il mio sogno di diventare pubblicitaria fare crick crack.
Sono uscita dall’agenzia appesantita, con addosso la sensazione vischiosa di essere poca cosa. Tiepida, trascurabile, quasi invisibile.

Ora che faccio la copywriter da dieci anni – ebbene sì: ha poi funzionato continuare a presentarmi alle selezioni sulle gambe un po’ traballanti, ma con le mani libere per sfogliare il portfolio – posso dire per esperienza che l’elogio della sfrontatezza sia uno dei topos più lisi della comunicazione commerciale.

Esci allo scoperto. Osa. Esprimi il tuo stile. Distinguiti.
Urge che il mondo sappia quanto sei raro e pazzerello. Quella non è un auto, è un mezzo per tracciare la tua strada. Questo non è un deodorante, è l’aria di chi sa cosa vuole. Qui c’è più di un abito, c’è un uomo che ha stoffa.
È assolutamente auspicabile diventare memorabile. Altrimenti, potrebbe accadere il peggio. Potresti sembrare normale.

In questa gara a strapparsi scampoli di riflettori, io mi muovo con circospezione.
All’orale di maturità ho ridefinito il concetto di secchezza delle fauci, la mia nozione di prossemica è riassumibile con stai nel tuo lasciami nel mio scordati un nostro, per indole entro nelle situazioni in punta di piedi, possibilmente incespicando. Sono una schiva che nel tempo ha addomesticato la sua natura. Per dire, oggi tengo presentazioni in pubblico senza sentire il bisogno di vomitare. Un trionfo.

Guardo mio figlio, che si cela agli occhi degli estranei e nicchia con lo sguardo basso se gli chiedono una canzoncina. Un bimbo solitamente curioso e loquace, canterino per tre quarti del tempo.
Lo osservo nei contesti nuovi, mentre studia i volti in silenzio, e tocca col piedino l’acqua valutando se buttarsi. Lo scruto e lo comprendo, perché sono stata come lui. E come lui, a volte mi nasconderei ancora volentieri dietro una gonnella, con un grugno che dice mollatemi, lasciatemi a riva.

“Adesso fa il timido, ma a casa è diverso!” mi affretto a giustificare.
Non sta bene sottrarsi alla danza sociale. Un bimbo dovrebbe dilettare i presenti.

Esci allo scoperto. Osa. Esprimi il tuo stile. Distinguiti.
Ce lo ripetono gli schermi, montando e moltiplicando i messaggi. Sui social la sintesi diventa “Rutta in faccia agli sconosciuti”, ma questa è un’altra storia ed è una storia che fa paura.

Quando abbiamo deciso che il riserbo fosse roba da perdenti?

Guardo mio figlio, che si cela agli occhi degli estranei e nicchia con lo sguardo basso se gli chiedono una canzoncina. Lo scruto, e so che quel suo negarsi gli costerà qualche preoccupazione, in futuro.

Pietrino mio, cercherò di ricordarmi che non c’è proprio niente da giustificare: tu non fai il timido, lo sei.
È bello che la tua voce cristallina sia un fatto prezioso. Mi piace che tu scelga a chi regalarti.

E se ti consiglieranno di camminare sulle mani, non ascoltarli. Rispondi che così non si va lontano.

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