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Il giorno in cui i grandi hanno salvato i bambini

Il giorno in cui i grandi hanno salvato i bambini

Bambini! Avete sentito la notizia? È successa una cosa grossa. Una cosa da salutare con applausi, saltelli sul posto e grida sguaiate. Il giorno ventisette ottobre duemilaventuno siete stati salvati. Voi bambini, tutti. Un fatto pazzesco.

Eravate a tanto così da un pericolo terribile, dicono.
Un mostro che divora le famiglie, dicono.
Una creatura fluida e viscida che si insinua nelle scuole, dicono.
Ma alcuni adulti valorosi – ZACCHETE! – vi hanno difeso brandendo una tagliola. Si sono spesi per voi, hanno lottato per voi. Dicono.
Se è stato rischioso? Sicuro! Hanno dovuto agire nell’ombra, strisciando nel fango per non essere visti. Ci vuole coraggio…

Insomma, da oggi per voi e per tanti il mondo diventa un posto più felice. Da oggi, è possibile continuare a fare le piccole cose di sempre sentendosi un po’ più leggeri. Tipo deridere una femmina in quanto femmina, insultare un maschio perché gli piacciono i maschi, prendere in giro una persona per la sua disabilità. Robe così.

Beh? Cosa sono quelle facce?
Su, su. Anche se non ci state capendo nulla, fidatevi. I grandi credono che questo sia il meglio per voi. Si sono spesi per voi. Lo hanno fatto per voi.

Dicono.

Però adesso che ci penso, in effetti, forse non lo hanno fatto per te, in prima fila, col moccio al naso: sei una femmina. E neanche per te laggiù in fondo, sulla sedia a rotelle. Probabilmente non per te, lì a sinistra: hai due mamme. Sicuramente non per te, che pensi sempre a quel tuo compagno di calcio. E nemmeno per te, che inizi a farti domande sulla tua identità. E neppure per te, né per te, né tantomeno per te, purtroppo. Per te forse… no, come non detto, per te no.

Lo hanno fatto per gli altri, quelli che rimangono. Siete comunque un bel numero.

“Qualcuno pensi ai bambini maschi etero cis e abili”: non era questo lo slogan?

Filastrocca della mascherina

Cos’hanno in comune Geco, Gufetta
e Gattoboy fermo nell’ombra che aspetta?
Te lo dico io: si son mascherati
per celarsi allo sguardo dei nemici giurati.

E se ti dicessi che anche tu, come loro,
puoi sfidare i cattivi e salvare un tesoro?
L’eroe mascherato stavolta sei tu:
ascoltami bene e ti svelo di più.

C’è in giro un mostrino piuttosto fetente,
un virus noioso che ammala la gente.
È piccolo come una punta di spillo
eppure nessuno può stare tranquillo.

Gli piace nascondersi nella saliva,
non sai dove va, non sai quando arriva.
Tra le goccioline svolazza su e giù
se stai chiacchierando o ti scappa un ecciù.

Ma tu puoi sconfiggerlo: devi essere astuto
e non farlo volare di starnuto in starnuto.
Indossa con cura la tua mascherina
e sbarra la strada alla bestiolina.

E qui viene il bello, lo sai che ti dico?
Di eroi mascherati ce n’è all’infinito.
Ormai sono ovunque: per strada e al mercato,
al parco, sul bus, in bici e nel prato.

Abbiamo imparato a restare distanti
senza sentirci soli, perché siamo tanti.
Al Coronavirus facciam la linguaccia,
con la mascherina a coprirci la faccia.

Il volto nascosto è un superpotere:
ridiamo con gli occhi e riusciamo a vedere
dettagli che prima sfuggivano ai più
in un colpo di ciglia o uno sguardo all’insù.

Per questo ti spetta un grazie sincero,
hai tanto coraggio e puoi esserne fiero.
La salute è di tutti e a salvarla chi è?
Ogni eroe mascherato, come me e come te.

 

 

P.S. Questa filastrocca è nata per preparare i nostri gemelli all’uso delle mascherine (e più in generale al distanziamento sociale). Abbiamo pensato di condividerla, perché magari pure voi conoscete dei piccoli umani con un sacco di domande e una fissa per le frasi in rima.

Alle mie donne da abbracciare

donne

A mia nonna, che ogni volta che racconta una barzelletta scoppia a ridere prima del finale, lasciandoci in sospeso. E ci prova a riprendere il filo, con gli occhi lucidi e le mani sul volto, ma a quel punto all’ilarità della storiella si è aggiunta l’assurdità della situazione, e lei si lascia vincere dal riso.
A 85 anni ha ideali incrollabili e abita la solitudine con una dignità antica.
Mia nonna che parla del suo Aldo come se avesse appena lasciato la stanza e cura da mezzo secolo i fiori di quel solo amore.

A mia madre, che nel campionato di intuito femminile vincerebbe per distacco. Ha indovinato il finale di Inception quando ancora la moglie di Leo non s’era nemmeno vista, per dire.
La mia mamma morbida, la mia mamma-casa, così dolce da far dimenticare quanto sia stoica. Tutti le abbiamo chiesto tanto e lei hai sempre trovato le risposte.

A mia figlia, che a carnevale in un mondo di Else ha voluto essere un cane, ed era un dalmata di rara fierezza. Lei che se ne frega, ride a briglie sciolte, ama e detesta risolutamente.
Gradisce vincere a Memory. Adora gli sberluccichi. Disprezza gli adulti che cantano in gruppo – non intonate “tanti auguri a te” durante i compleanni, abbiate un po’ di dignità.
Grida “SONO UN CAVALIERE!” brandendo ciabatte, ha un cassetto di tesori in vera plastica e ogni sera bacia la mia pancia che le ha dato la vita e un fratello.
Sono stata una bimba un po’ pallida: questa sua infanzia esuberante e femmina me la godo e la proteggo.

Alla mia amica grande, che è stufa che le dicano quanto sia forte. Ma lo è, dannazione, e la sua forza è condanna e salvezza. Mi ha insegnato che la malattia non si definisce da sé: è soprattutto il modo in cui la incarni, è quello che ci fai, di quel tuo corpo che non sta alle regole. E lei ha firmato ogni pagina della sua storia con una presenza che brilla e si impone, anche nel dolore. Non ultimo, è stata la mia alleata scema nell’età della stupideira. E la stupideira è per sempre.

Alla mia amica bella, che sa tutto di calcio e sfoggia manicure impeccabili, perché dentro agli stereotipi la realtà sta strettissima. Intelligente da far venire i nervi, in equilibrio quando gli altri sembrano vacillare, plana elegante e arguta sopra la gelosia, le aspettative, la rabbia. E assesta uno schiaffo alla narrazione che ci vuole sempre più emozionate, delicate, mestruate.

All’amica che è andata a prendersi la sua rivincita più in là, a quella che splende e nemmeno lo sa, alla madre a tempo pieno perché si è riempita il tempo di vita, a quella che ha vissuto una prova con grazia assoluta, alla manager che ha difeso ogni volta il proprio valore, all’intrepida che ha costruito un progetto che le somiglia.

A voi dedico i miei pensieri in questo tempo confuso, donne mie. E oggi che mi sento spersa, stringo la mia bambina e con lei vi abbraccio, qui dentro, per ritrovarmi.

In difesa della timidezza: perché schivo non vuol dire schifo

timido

“Ti saresti dovuta presentare qui da noi camminando sulle mani, come minimo”.

Avevo ventidue anni e quello era il primo colloquio di lavoro della mia vita. Mentre ascoltavo il mio interlocutore elencarmi le ti-giuro-spassosissime trovate degli altri candidati per farsi notare, sentivo il mio sogno di diventare pubblicitaria fare crick crack.
Sono uscita dall’agenzia appesantita, con addosso la sensazione vischiosa di essere poca cosa. Tiepida, trascurabile, quasi invisibile.

Ora che faccio la copywriter da dieci anni – ebbene sì: ha poi funzionato continuare a presentarmi alle selezioni sulle gambe un po’ traballanti, ma con le mani libere per sfogliare il portfolio – posso dire per esperienza che l’elogio della sfrontatezza sia uno dei topos più lisi della comunicazione commerciale.

Esci allo scoperto. Osa. Esprimi il tuo stile. Distinguiti.
Urge che il mondo sappia quanto sei raro e pazzerello. Quella non è un auto, è un mezzo per tracciare la tua strada. Questo non è un deodorante, è l’aria di chi sa cosa vuole. Qui c’è più di un abito, c’è un uomo che ha stoffa.
È assolutamente auspicabile diventare memorabile. Altrimenti, potrebbe accadere il peggio. Potresti sembrare normale.

In questa gara a strapparsi scampoli di riflettori, io mi muovo con circospezione.
All’orale di maturità ho ridefinito il concetto di secchezza delle fauci, la mia nozione di prossemica è riassumibile con stai nel tuo lasciami nel mio scordati un nostro, per indole entro nelle situazioni in punta di piedi, possibilmente incespicando. Sono una schiva che nel tempo ha addomesticato la sua natura. Per dire, oggi tengo presentazioni in pubblico senza sentire il bisogno di vomitare. Un trionfo.

Guardo mio figlio, che si cela agli occhi degli estranei e nicchia con lo sguardo basso se gli chiedono una canzoncina. Un bimbo solitamente curioso e loquace, canterino per tre quarti del tempo.
Lo osservo nei contesti nuovi, mentre studia i volti in silenzio, e tocca col piedino l’acqua valutando se buttarsi. Lo scruto e lo comprendo, perché sono stata come lui. E come lui, a volte mi nasconderei ancora volentieri dietro una gonnella, con un grugno che dice mollatemi, lasciatemi a riva.

“Adesso fa il timido, ma a casa è diverso!” mi affretto a giustificare.
Non sta bene sottrarsi alla danza sociale. Un bimbo dovrebbe dilettare i presenti.

Esci allo scoperto. Osa. Esprimi il tuo stile. Distinguiti.
Ce lo ripetono gli schermi, montando e moltiplicando i messaggi. Sui social la sintesi diventa “Rutta in faccia agli sconosciuti”, ma questa è un’altra storia ed è una storia che fa paura.

Quando abbiamo deciso che il riserbo fosse roba da perdenti?

Guardo mio figlio, che si cela agli occhi degli estranei e nicchia con lo sguardo basso se gli chiedono una canzoncina. Lo scruto, e so che quel suo negarsi gli costerà qualche preoccupazione, in futuro.

Pietrino mio, cercherò di ricordarmi che non c’è proprio niente da giustificare: tu non fai il timido, lo sei.
È bello che la tua voce cristallina sia un fatto prezioso. Mi piace che tu scelga a chi regalarti.

E se ti consiglieranno di camminare sulle mani, non ascoltarli. Rispondi che così non si va lontano.

L’atresia esofagea, mio figlio e quel pezzo mancante

Atresia esofagea

“Raramente ho visto un feto con un pene così lungo”.

Il mio ginecologo, un attempato e stimabile professore, era sinceramente sorpreso. Ravanava con la sonda dell’ecografo sul mio pancione, scuotendo la testa incredulo come un ornitologo di fronte a un uccello raro.
Insistette addirittura per stampare un’immagine: quella sera tornammo a casa col proto-pisello di Pietro immortalato in tutta la sua esuberanza. Attaccammo la foto al frigo, in attesa di poterci complimentare col nostro erede.
Per tutto il resto della gravidanza, la dotazione del gemello maschio fu oggetto di freddure raffinate, tra noi e con gli amici.

In sala parto, scoprimmo però che l’attributo più raro di nostro figlio non era tra le sue gambe. Pietro nacque con l’esofago corto e staccato dallo stomaco, che comunicava con la trachea attraverso un moncone residuale. Atresia esofagea: questo il verdetto. Una malformazione non rilevabile durante gli esami prenatali.
Quel minuscolo sconosciuto che amavo di un amore senza ricordi, un amore embrionale fatto solo di promesse, era malato e io ero paralizzata. Avevo paura per la sua e per la MIA vita.

Che ne sarà di lui?
Sopravviverà all’intervento?
Riuscirà mai a mangiare come gli altri?
E se poi dovremo nutrirlo col sondino?
Smetteremo per sempre di essere felici?
Cosa ci sta per succedere?
Dio-mio-cosa-ci-sta-per-succedere?

L’infermità, l’organismo che devia e disobbedisce, è perdita di controllo, è attesa febbrile e dolorosa di esiti, pareri, notizie. Comporta l’intimità forzata con persone alle prese con brutti fantasmi, alcuni più terrificanti dei tuoi. È una circostanza triste.
Interviene allora la narrazione: narrando addosso alle nostre sfortune diamo loro un senso, narrando proviamo a salvarci.

Nostro figlio venne al mondo con un pezzo mancante e questo fu il pretesto per sorridere, di tanto in tanto, di quel pene cresciuto a discapito dell’esofago. Ci dicevamo che durante la gestazione qualcosa doveva essere andato storto nella fornitura delle tubature.
La tracheomalacia lo faceva respirare rumorosamente e il suo “ARRR” divenne per noi l’intercalare di un lupo di mare. Quel neonato era un ruvido pirata giunto da altri mondi con un bagaglio di storie e cicatrici.
Con Matteo ci scambiavamo battute irripetibili e io alternavo risatine alla più sfrenata autocommiserazione. Abbiamo cantato “ll piccolo Pietrino ha un buco nell’esofago” sulle note di “La macchina del capo ha un buco nella gomma”, con le lacrime agli occhi.
Per noi ha funzionato così.

La gente mi diceva “Andrà tutto bene” e io trattenevo il fastidio. Non so come andrà, non lo sanno i dottori, di certo non lo sai tu. Se vuoi starmi vicino, siediti e aspetta con me.
Dopo, solo dopo – parlo di un anno o più, quando le incombenze mediche si sono diradate e l’urgenza di performare è scemata, ho avuto modo di riflettere davvero sulla ricchezza scaturita da quella e da altre esperienze provanti. Pensieri sfaccettati, contrapposti a sinceri “mobbasta però”.

Incollata al frigorifero, resta quell’ecografia. A volte guardarla mi fa sorridere, altre mi rende malinconica. Penso che la vita assomigli a quell’immagine: le cose importanti si lasciano decifrare col tempo, le cazzate si vedono benissimo.

 

 

P.S. Nel caso ve lo domandaste: no, Pietro alla fine non è superdotato. Però ha una risata con tutti gli attributi. Gliel’hanno regalata i chirurghi del Regina Margherita di Torino, ai quali saremo eternamente grati.

Back to gender: un pericolo tra i banchi di scuola

Back to gender: un pericolo tra i banchi di scuola

Settembre: riaprono le scuole. E la caccia al gender.
In qualità di Madre, titolo equipollente a una laurea in Scienze della Formazione, ho scandagliato i programmi didattici dei nostri pupilli alla ricerca delle insidie ivi nascoste dalla lobby gay.
Quando sorprenderete vostro figlio a ripassare l’esegesi di “Gelato al cioccolato”, non dite che non vi avevo avvertito.

CHIMICA
“Una famiglia di elementi è costituita da quelli che compaiono in una stessa colonna della tavola periodica”. Capite bene che da qui a “Una famiglia di elementi è costituita da quelli che si vogliono bene” è un attimo.
Madre, padre, figli, sabati all’Esselunga: di questo è fatta una famiglia. Il resto è propaganda strisciante.

FISICA
Corpi rigidi, corpi estesi, membrane che si muovono su superfici, fluidi e solidi che riempiono interi spazi tridimensionali: ci sono più allusioni in un manuale di fisica che in un brano dei Village People.
I gruppi di pressione, così, vogliono normalizzare il sesso: che ne sarà di secoli di sensi di colpa usati come contraccettivi?

ARITMETICA
Due è uguale a due. Istillare nelle nuove generazioni l’idea che ammucchiate aberranti come quindici meno tredici o peggio millecentoventisette meno millecentoventicinque abbiano egualmente diritto di essere considerate due, è una pericolosa forzatura ideologica.
Non si può essere due come pare e piace. Siamo in piena deriva #metwo.

INGLESE
Insinuatasi nel quotidiano come un virus, la lingua del pensiero unico ha il preciso obiettivo di eliminare le differenze e appiattire le qualità.
Fateci caso: in inglese gli aggettivi non sono declinabili al maschile o al femminile, c’è un subdolo terzo genere neutro, ma soprattutto è impossibile comunicare a un amico che gli si vuol bene senza passare per ricchione: tocca dirgli “I love you”.

Il fantasma del Natale prostrato

Il Natale ai bimbi buoni
porta doni e convulsioni.
Capodanno, che entusiasmo,
porta pure il broncospasmo.

La Befana vien di notte,
dei tuoi piani se ne fotte:
mette un virus nel calzino,
salta il viaggio per Berlino.

E poiché questo è l’inizio,
tieni chiuso ogni orifizio:
la fortuna ha pronto un dardo
da scagliare il 4 marzo.