
New York. Un piccolo locale serve pancake con sciroppo d’acero. Ci sono i divanetti imbottiti e i camerieri che versano il caffè dalle caraffe. Siamo venuti qui di proposito per l’ultima colazione a Manhattan: ci piaceva l’idea di chiudere la vacanza con uno stereotipo americano. Che scemi.
Ci alziamo in volo sui palazzi e siamo a Brooklyn. Ecco la libreria all’angolo, diamo di nuovo un’occhiata. È piena di edizioni illustrate e deliziose inutilità di cartoleria, ricordi? Seguimi ora, stacca i piedi dall’asfalto. Guarda, l’oceano è già laggiù.
Tokyo. Petali rosa sui ciliegi e per terra. Un parco che trabocca di una bellezza così definitiva e mistica, proprio non te lo aspetteresti accanto a uno stradone. Hai ragione, in Giappone continuiamo a inciampare nella meraviglia. Due gemelline corrono sul prato, la stessa camicia bianca, le gambe cicciotte ancora esitanti. Donne addette alla manutenzione, chine sull’erba, scandagliano il terreno con un minuscolo punteruolo, in cerca di piccole radici infestanti. Gruppi di giovani fanno hanami all’ombra degli alberi in fiore. I grattacieli tutt’intorno, da qui, sembrano conformazioni primordiali e magnifiche. Sul ponte di legno provo a fare una foto panoramica con l’iPhone, la cancello perché non so come farci stare tutto questo.
Eccoci, sotto di noi di nuovo acqua e mare e acqua. Lascia che mi bagni un attimo i piedi, poi ripartiamo. Sorvoliamo la costa ligure, il borgo arroccato e infine l’appartamento con le tende blu. Il letto è irresistibile come quella volta che siamo scappati dai figli per fare gli innamorati.
Adesso dammi la mano. Librati ancora. Planiamo sulla strada che abbiamo attraversato migliaia di volte. Oltre il prato c’è una casa gialla. Una scala. Uno zerbino con la scritta “welcome” che da giorni non da il benvenuto a nessuno. Oltre la porta, un bimbo dai riccioli biondi gioca con le macchinine, steso sul pavimento. Tiene la testa a un centimetro da Saetta McQueen, proiettato dentro un film di cui è regista, rumorista, dialoghista.
Una bimba imbronciata distribuisce cibo in plastica ai suoi pupazzi.
C’è un uomo in cucina, sei tu.
Carichi la lavastoviglie e mi rassicuri: “Penso io ai piatti, così mi tengo occupato”.
C’è una donna seduta al tavolo, sono io.
Bevo il caffè domandandomi se questa tua frase sia più gentile o più drammatica.
Come sto? Bene.
Come sto? Non so, non rispondo.
Risiedo in questo spazio piccolo e in questo tempo limitato, faccio del mio meglio, il mio corpo come primissimo confine, la mia mente come scatola che proprio non voglio riempire più del necessario. La superficie è l’unico habitat che mi sia congeniale, al momento. Ogni volta che provo a guardare davvero dentro alle cose, rischio il capogiro.
Ieri abbiamo costruito un calendario insieme ai bambini. Mentre coloravamo e ritagliavamo, i giorni si sono fatti materici, hanno smesso di avere tutti la stessa confusa inconsistenza. È stato bello.
C’è stato un mondo là fuori, amore mio. Ne verrà un altro. Ogni tanto volo via con te e sogno lidi migliori. I nostri.
Pazzesca… grazie
Ti ringrazio, Davide! 🙂