La mia storia di paura

La luce estiva si è assottigliata, fino a soccombere al morso delle porte scorrevoli con un “clank”. Mi sono ritrovata sola nell’ascensore chiuso, a guardare dal basso dei miei quattro anni la lunga fila di pulsanti, senza capire. Ed è allora che l’ho sentita per la prima volta. O almeno, la prima che ricordi. La Paura ha posato la sua mano pesante sul mio stomaco, bisbigliando: “Non uscirai mai di qui, non ne sei capace. Sei solo una bimba stupida che fa cose stupide”.
Ho urlato parecchio per non ascoltarla. Aveva ragione, la maledetta: avventurarsi in solitudine dentro uno spazio angusto non era stata un’idea luminosa.

Il mio piccolo dramma si è concluso dopo meno di un minuto, con l’intervento di una vicina di casa e la successiva dose di rassicurazioni miste a invettive miste a raccomandazioni miste a baci umidicci da parte di mia madre.
Ancora oggi non riesco a stare in ascensore da sola. La Paura è come il raggeaton: detestabile ma pervasiva.

Qualche anno dopo ho provato a sfidarla, sulla spinta della beota innocenza che condividevo con le amichette del cortile. Io e le mie compari salivamo sulle panchine in giardino per scavalcare con un salto le siepi di rovi, camminavamo lungo un parapetto a strapiombo sul piano interrato dei garage, ci lanciavamo coi pattini giù per le discese. Un profluvio di intelligenza e lividi. Allora, osavo guardare la Paura negli occhi.

Poi ho iniziato a soccombere, a lasciarle fare la splendida.
Al liceo sopportavo di essere bullizzata dalle mie stesse emozioni, fatto che, a ben vedere, faceva di me un’adolescente. Tutto mi rallentava, tutto mi condizionava. Quella è stata la Lunga Stagione del Condizionale.

Lui penserebbe che ho prenotato le fedi, il ristorante e una deliziosa orchestrina, se gli facessi uno squillo.
Le mie tette piccole sarebbero in mondovisione, se mettessi questa mia maglietta fina.
Farei cagare, se mi tingessi i capelli di prugna come il 50% delle mie coetanee.

Ho salutato la fine della maturità con alcune urgenze nitide nella mente: datemi un motivo per continuare a costruire, datemi ventimila mesi sabbatici, datemi l’oblio.
Invece mi è successo di proseguire gli studi, trovare un lavoro gratificante e innamorarmi di un uomo con cui ho poi effettivamente prenotato le fedi, il ristorante e una deliziosa orchestrina. Tra i 24 e i 30 anni è stata gioia strabordante.
La Paura, invincibile, si annidava negli angoli dei miei sorrisi e tra le increspature delle fossette, cercando di convincermi che forse era troppo, che non mi meritassi tanto, che magari poi sarebbe finita, chissà.

Ogni volta che nasce un bambino, nascono anche una madre e una simpatica cucciolata di paranoie. Quando è toccato a me, la gamma ha spaziato dall’angoscia per la vita dei miei figli – corroborata dai racconti che parevano perseguitarmi sui modi con cui un infante può farsi malissimo, all’ansia per il passato che non era più e per il futuro che non era ancora, al timore di non essere abbastanza felice o abbastanza materna o abbastanza grata o abbastanza sexy o abbastanza generosa o abbastanza punto.

Ho cominciato a odiarla, quella Paura, e odiandola le davo forza, spazio, occasioni.
Mi sembrava di essere tornata bimba dentro quell’ascensore: incastrata in una situazione più grande di me, incapace di leggere i segnali, spersa.

Così un giorno mi sono decisa. Ho fatto sedere la Paura accanto a me. Le ho offerto the e biscotti.
L’ho ringraziata per le volte in cui mi ha protetta – ché coi capelli prugna sarei stata davvero una merda.
Le ho ricordato quanto fosse importante.
L’ho persino abbracciata, lasciandomi andare ai ricordi.
Poi l’ho accompagnata alla porta, le ho dato una giacca per ripararsi dal freddo e le ho detto di farsi una vita.
Cortesemente, non la mia.

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