Il giorno in cui uno sconosciuto ha allungato la sua ombra sopra di me, indossavo una gonna. Avevo otto anni e decisi che non ne avrei mai più messa una. Pantaloni a oltranza: questa la mia reazione, l’unica nel silenzio in cui mi sono trincerata per mesi dopo l’accaduto. Istinto di autoprotezione oppure tentativo di non provocare più uomini come quello?
Ero una bambina, e con quella risoluzione – abbandonata poi in un’estate di risate – lasciavo che i contorni tra le responsabilità sfumassero. Ero una bambina, e già mi trovavo a fare i conti con una vergogna incolpevole.
Facevo le medie, quando dalle auto signori di mezza età hanno cominciato a rivolgermi certe parole e smorfie. Erano segnali da un mondo che non conoscevo, una sguaiata violazione della distanza educativa tra adulti e ragazzini.
Negli anni ho sperimentato mani invadenti nella calca di bus e discoteche, battute svilenti, tentativi di farmi sentire vulnerabile unicamente perché sola, pedinamenti. Lo so, maschi perbene all’ascolto, avete già sentito questa storia di prevaricazione: ve l’hanno raccontata compagne, sorelle, amiche, madri. Portate pazienza ancora una volta, ché la banda Pillon è là fuori e tocca restare vigili.
Quando ho assolto la funzione di procreatrice e il mio corpo è diventato un totem di fertilità, la pubblicità mi ha dato in fretta un nuovo obiettivo: resettare.
Bello il pancione, bello il miracolo della vita che cresce, bello tutto. Ma adesso lasciati di nuovo desiderare.
“Tornerò come prima?” si chiedeva la modella incinta e bellissima sul manifesto di una crema antismagliature, mentre io spingevo la carrozzina, a pochi mesi dalla nascita dei miei figli. “Tra mille domande, una certezza”, le rispondeva con irritante baldanza lo slogan del prodotto.
No no e no, avrei ribattuto io di pancia, la mia neonata pancia zebrata. Non torneresti come prima nemmeno se recuperassi ogni centimetro del corpo che avevi, perché la tua identità ha abbracciato nuovi paradigmi. Il cambiamento non è un demerito, i segni non sono una colpa. Dannata crema antismagliature con oli essenziali d’inadeguatezza e profumo d’aspettativa.
Una sera di qualche tempo fa, mi sono trovata a discutere di disparità di genere col mio compagno. La sua tesi era che in Italia gli squilibri tra i sessi non fossero affatto gravi e che spesso noi donne vedessimo il male dove non c’è. Io, così implicata nel discorso, così certa della nostra cristallina condizione di svantaggio, mi sono sentita prima offesa poi confusa. Stavo esagerando?
Ho provato a parlargli di quello che sento e vedo: violenze, atteggiamenti predatori, stereotipi duri a morire. Del bagaglio di sottomissione che la Storia ci ha consegnato. Dei messaggi contrastanti che la società riserva alle sue figlie: siate ribelli ma adorabili, ambiziose ma deliziose, forti ma gestibili.
Per la prima volta, ho sentito una distanza di vissuti quasi incolmabile tra me e lui, alleato progressista e amorevole. Ed è stato emblematico.
Così, ho riletto la mia vita e indagato quel disagio tutto nostro di vivere in un Paese in cui ogni tre giorni avviene un femminicidio. E sono giunta alla conclusione – lapalissiana, per carità – che non sia vittimismo essere vittime, per la stessa logica per cui non è buonismo essere buoni. E che sarebbe bello se gli uomini rinunciassero a spiegarci come dovremmo reagire di fronte a ciò che ci preoccupa o ci addolora.
Matteo mi ha inviato un messaggio, poi: ci ho pensato su, ieri sera avevi ragione.
Potrei rovinare questo articolo con un luogo comune, e sottolineare quanto sia sexy un maschio che ammette di avere torto.
Invece faccio gli auguri a tutte le donne, perché la strada per il pieno rispetto è ancora lunga. E auguri agli uomini che tornano sui loro passi per provare a percorrerla con noi.