Lo scorso 25 novembre ho subito un intervento chirurgico. Nulla di grave, ma la natura dell’operazione mi ha costretta a un periodo di riposo, lontana da sforzi inutili e sollecitazioni eccessive. Ovvero a 240 km dai miei figli.
Stanziata nei pressi di un ospedale lombardo, ho trascorso il primo periodo di convalescenza sepolta sotto un piumone, una massa immobile intorno a cui orbitava senza sosta mia madre. Non avevo voglia di scrivere né di leggere, e un numero di Vanity Fair mi appariva approcciabile quanto un manuale di fisica teorica.
Talvolta il tempo si faceva colloso. Succedeva quando incontravo un intoppo nelle tre azioni base della mia routine: fare la pappa, fare la nanna, fare la cacca. Così è, se sei ferita e il tuo solo compito è rimarginare.
In piena regressione e senza l’appiglio di Netflix, per due settimane mi sono nutrita di proteine, frutta e TV generalista, che ingurgitavo con vastissima indolenza dopo anni di digiuno. E, sorpresa: i canali in chiaro erano pressappoco come li avevo lasciati.
Alessandro Borghese nei ristoranti. Alessandro Borghese nei cooking show. Alessandro Borghese nei ristoranti. Gerry Scotti nei quiz. Sallusti nei salotti. Coppie etero innamorate nei film natalizi. Malattie imbarazzanti. Assassini inquietanti. Soubrette. Una promo di “La pupa e il secchione”. – LA PUPA E IL SECCHIONE? Ma veramente? Devo controllare sulla Smemo se domani interroga di mate?
Alessandro Borghese nei ristoranti.
Di tanto in tanto, nelle interviste della Bignardi scorgevo un presente in cui potevo riconoscermi. – Ok, in studio c’è Carolina Crescentini che parla di Motta. È il 2019 e siamo in Italia.
A ripensarci adesso, quello stallo forzato mi appare come un assaggio di questi tempi di attese, in cui ci ritroviamo piccoli, infastiditi e al contempo dipendenti da prescrizioni che limitano i nostri corpi.
E mi ha rivelato qualcosa di questo Paese, delle velocità sfasate con cui si muovono i media e le generazioni. Ogni “bolla” ha le sue narrazioni, ogni sciame segue le proprie traiettorie su canali e ritmi suoi.
Questo virus non lo padroneggia nessuno ma riguarda tutti, è un fenomeno oscuro e collettivo. Ne parliamo e parlandone ci illudiamo di renderlo più intelligibile.
Lo sfasamento tra le voci si è fatto stridore insopportabile: TV e giornali vendono terrore, gli sciami rispondono completamente dissociati. Chi minimizza, chi accatasta viveri, chi questiona sui numeri, chi addita colpevoli occulti, chi domanda OK MA PERCHÉ NON PARLATE DEL CLIMA (come se non fosse possibile assistere a più di una crisi globale nello stesso momento, ahinoi).
Non sappiamo quanto durerà e c’è da chiedersi se nel frattempo smetteremo di ronzare convulsamente per comportarci come una comunità.
Qual è l’alternativa? Organizzare festosi assembramenti al grido di “l’Italia non si ferma”, perché tanto “muoiono solo gli anziani e le persone con patologie”? Non so voi, ma conosco esseri umani acciaccati piuttosto amabili, voglio fare la mia parte per proteggerli e difendere la tenuta del nostro SSN.
E ora scusatemi, ma ho passato la settimana in tuta, in smart working, coi bambini a casa da scuola, il mollettone nei capelli e la certezza che il corriere abbia manomesso lo scatolone per rubare l’Amuchina ordinata quando ancora non costava come un siero Estée Lauder – storia vera.
Mi attacco a Netflix, come vuole la mia bolla.